Roma Creative Contest 2016: intervista a Nicola Guaglianone e Gabriele Mainetti
La quinta edizione del Roma Creative Contest, il Festival Internazionale di Cortometraggi organizzato nella Capitale da Image Hunters, sta volgendo al termine e, a breve, verrà nominato anche il vincitore dello Screenplay Contest, la competizione che permette ai giovani sceneggiatori di mettere alla prova il loro talento riversando la propria fervente creatività nella stesura di una sceneggiatura, il cui tema può essere scelto fra 3 tracce pilota.
Il tempo a disposizione è di 8 ore, al termine delle quali ogni lavoro viene esaminato da una Giuria che decreta qual è l’opera meritevole di diventare un vero cortometraggio, prodotto da Image Hunters con la collaborazione di Rai Cinema e Laser Film e destinato ad essere inserito nel programma di distribuzione RCC in Italia e all’estero.
La giornata inaugurale ha visto il Presidente di Giuria Gabriele Mainetti, affiancato da Nicola Guaglianone (rispettivamente regista e sceneggiatore del pluripremiato successo italiano Lo Chiamavano Jeeg Robot) presentare l’evento. In particolare, Mainetti ha tenuto una masterclass di regia e Guaglianone ha ideato e presentato le tracce dello Screenplay Contest. Gli altri membri della giuria sono Laura Delli Colli, Massimiliano Bruno e Adriano Giannini.
Cinematographe, presente all’apertura dell’evento in qualità di Media partner, ha intervistato per voi i due giovani talenti italiani protagonisti di quest’edizione del Roma Creative Contest. Ecco cosa ci hanno raccontato Nicola Guaglianone e Gabriele Mainetti a proposito di creatività!
Nicola Guaglianone, hai appena presentato lo Screenplay Contest. Come ti sei approcciato alla professione di sceneggiatore e perché consigliarla ai giovani rispetto ad altri ruoli – a torto -spesso più valorizzati da giornalisti e pubblico, come quello di regista?
N.G: Io ho iniziato seguendo uno sceneggiatore, Leo Benvenuti, che insieme a Piero De Bernardi ha firmato tra le più belle sceneggiature degli ultimi 50 anni. Leo faceva dei seminari di sceneggiatura gratuiti all’ANAC il venerdì sera, e da lì ho iniziato. Benvenuti ha letto dei miei lavori e ha capito che potevo fare questo mestiere. Sicuramente consiglierei questo lavoro a qualcun altro, ho sempre diffidato da chi dice il contrario dall’alto della ricchezza delle proprie opere. Io dico ‘fatelo’ perché, prima di tutto, è un lavoro che si può imparare ed insegnare. Poi il talento, la creatività, l’immaginazione, sono doni di nascita. Io a 5 anni avevo un amico immaginario, che è ancora qua accanto a me adesso (ride, n.d.r.)!
Il consiglio che mi sento di dare è di prendere tutte le proprie fragilità e paure e farle diventare la propria arma migliore, senza poggiarsi ad altri o cercare di seguire scelte fatte da qualcun altro. La cosa più importante è trovare la propria unicità.
A proposito della collaborazione ormai consolidata con Gabriele Mainetti, in Lo Chiamavano Jeeg Robot ma anche nei cortometraggi precedenti, Basette e Tiger Boy, si osserva questa ricorrenza nel collocare personaggi iconografici del mondo Manga in un contesto urbano romano. Da dove nasce questa particolare idea?
N.G.: Io sono cresciuto a Roma, in particolare a Villa Bonelli, vicino al quartiere Magliana e ho fatto l’esperienza del servizio civile a Tor Bella Monaca, quindi mi sono sempre trovato a mio agio nelle borgate e nel raccontare quei mondi. L’idea nasce dalla voglia di creare qualcosa di nuovo, quasi un ibrido: prendere due immaginari che non si appartengono, quello degli Anime e dei Manga, rappresentativo dell’idea dei Mito, dell’immaginazione che ci ha cresciuto ( a me e Gabriele) fin da bambini, e dall’altra parte raccontare di un supereroe di Tor Bella Monaca, o di due gemelle siamesi di Castel Volturno, rendendoli credibili. Abbiamo voluto prendere il cinema dei supereroi e della fantascienza e “sporcarlo” con la borgata, rappresentativa di un altro tipo di cinema che comunque abbiamo sempre amato, dal Neorealismo in poi.
Anche le tracce presentate ai concorrenti dello Screenplay Contest seguono quest’idea, mischiare mondo dell’immaginario con mondo del reale. D’altra parte un “alieno” può essere visto come un extraterrestre ma anche, più semplicemente, come qualcuno diverso da noi.
Sono stati recentemente nominati i 7 film che concorreranno per aggiudicarsi la nomination all’Oscar come miglior film straniero, e la tua firma è presente in ben due delle opere in lizza, Indivisibili di Edoardo De Angelis e Lo Chiamavano Jeeg Robot. Come ti senti in proposito?
N.G.: Mi sento bene! Soprattutto perché sono due storie che ho scritto al buio, nella mia stanza, e hanno in qualche modo un filo comune. Le sento particolarmente mie. Se dovessi dire qual è la mia visione di fare cinema, che cosa mi piace fare, risponderei proprio “quella roba lì”. E vedere che piace anche ad un sacco di altre persone è la più bella gratificazione, arrivare al pubblico ed essere capito. Riempie veramente il cuore di gioia.
Gabriele Mainetti, durante la masterclass hai parlato dell’importanza del cortometraggio come forma di espressione più immediata dell’identità di un regista, ma anche come forma più economica per concedersi la possibilità di esporre il proprio talento. Tu sei la prova vivente del fatto che anche con un budget ridotto si possano realizzare grandi prodotti cinematografici, ma c’è qualcosa, in Lo Chiamavano Jeeg Robot, che ti è dispiaciuto non poter fare proprio a causa dei limiti del budget?
G.M.: Sì, ci sono delle messe in scena che non funzionano. Per fare le scene d’azione devi avere i soldi, puoi inventarti delle soluzioni per farlo funzionare. Come diceva Bazin, è meraviglioso non staccare, ed Inarritu (in Revenant, n.d.r.) ne ha dato una dimostrazione eccelsa nella scena dell’orso che combatte con Di Caprio. Sarebbe piaciuto tanto anche a me poterlo fare, organizzare alcune scene in cui Enzo si scontra contro gli altri rispettando il long take, e anche poter fare delle cose su più piani della profondità. Ma per fare cose del genere ci vogliono un sacco di soldi.
Ti riferisci ad una scena in particolare?
G.M.: Sì, penso in particolare a quando Enzo corre verso il Ponte della Musica per lanciare la bomba nel Tevere. Tendenzialmente, quando non hai i mezzi, cerchi di mischiare più piani, stai stretto su di lui, gli metti delle persone accanto e riversi lo sguardo sul controcampo per raccontare dove lui sta andando. Devi costruire la scena quando sarebbe bastata mezza figura, più profondità di campo e riprendere tutto il piazzale pieno di gente; sul fondo vedi il ponte e capisci che sta andando là. In un secondo avrei avuto tutto. Però una scena così costa 50000 euro, decisamente fuori dalla portata del budget di Jeeg Robot.