RFF11 – The Birth of a Nation: recensione del film di Nate Parker
The Birth of a Nation è una pellicola scritta e diretta da Nate Parker, presentata alla Festa del Cinema di Roma 2016. Nel cast sono presenti Armie Hammer, Aja Naomi King, Jackie Earle Haley e lo stesso Nate Parker che ne fa anche da protagonista e da produttore.
Siamo agli inizi del 1800 e l’America è segnata dalla schiavitù, una depredazione razziale partita dall’Africa fino alle oscure vallate della contea di Southampton, in Virginia. Ed è proprio lì che nasce un essere straordinario, Nat Turner, che sarà dapprima un bambino molto intelligente, una mente che non passerà inosservata agli occhi dei proprietari della sua magione, che vedranno bene di toglierlo dai campi e dai lavori forzati per poi insegnargli a leggere e a scrivere, leggendo unicamente i testi sacri.
La sua famiglia è composta dalla madre, dalla nonna e dal padre, che poi sarà costretto alla fuga per aver rubato di notte del cibo per la sua famiglia. Le due donne per il bene del figlio restano fedeli ai loro schiavisti e continuano a servire i Turner come ogni giorno, mentre il giovane Nat si perderà nei versi della fede cattolica, aprendogli uno stupore e una speranza di una vita migliore attraverso le parole di Dio.
Parole che non si fermano. Crescendo il protagonista inizia a tenere dei ritrovi, con il consenso dei padroni, con altri neri del casale Turner e limitrofi, diventando un vero e proprio predicatore e insegnando, durante le lodi al Signore, a cantare e a comprendere la parola di Dio e di come trovare nei versi la forza per sopravvivere alla schiavitù fisica e morale.
Quella sua eleganza e dialettica persuasiva lentamente si diffonde nella contea, divenendo un esempio per tutti, anche per gli stessi pastori bianchi scettici che da bambino non gli permettevano nemmeno di poter essere preso in considerazione per le liturgie o le letture. Oramai grande abbastanza, il suo lavoro restava nei campi; ma una mattina, in pieno 1831, qualcosa cambia.
Un signore, proprietario di alcune piantagioni del sud, apprende del suo dono da predicatore esortativo e lo invita nelle sue dimore per convincere i suoi schiavi neri che obbedire è giusto e andare contro i padroni significa andare all’inferno. Samuel Turner, padrone di casa Turner, sa che con quella mossa potrebbe guadagnare un bel profitto, sollevando le sorti della sua proprietà in evidente calo e accompagna Nat nelle sue predicazioni.
All’arrivo nella casa del cliente Nat trova una decina di uomini e donne stanchi e deperiti che non hanno la forza per tenersi in piedi, chi con una gamba lesionata, chi con lo sguardo atterrito e succube, ascoltano tutti insieme le parole malferme di Nat che recita i versi della Bibbia, in cui viene messo alla prova l’uomo che deve rispettare e servire il volere del padrone, un po’ edulcorato come scenario, ma le sue visite continueranno, e a peggiorare saranno le condizioni e le situazioni.
Nat assisterà con totale impotenza alle violenze e ai martiri degli schiavi che, legati come i cani o i porci negli ovili, subiranno le peggiori fustigazioni fisiche e lui con il sangue agli occhi, di volta in volta, cadrà sempre più nella morsa della rivolta; la rabbia lo governerà pian piano, divorando la sua mente e imponendogli un cambiamento radicale, nella sua vita e nella vita dei suoi fratelli.
La rivoluzione sarebbe stata prossima, Dio dopotutto non parla solo di obbedienza ma anche di ribellione degli ultimi che presto o tardi potranno trovare la propria dignità di stare al mondo, la giustizia sociale del ritrovarsi liberi e lottare affinché tutto ciò diventi reale. Nat comincia ad organizzarsi e a far sì che il sogno di riscatto per tutti gli schiavi d’America cominci sul serio e prenda forma proprio dalle sue terre, quelle terre che hanno sterminato la sua famiglia e usurpato ogni speranza, ogni innocenza.
Nascere nel 1800 in America e nero significava essere un animale, l’ultimo della stirpe degli esseri viventi, senza dignità, senza diritti, senza possedimenti, alle stregue di un padrone che condizionava le menti dei suoi servi insegnando loro la totale egemonia dei bianchi e che i neri sono e sarebbero stati solo pellame per le ruote e braccia per cogliere grano e cotone.
The Birth of a Nation è una pellicola simbolista, disarmante, in cui il sangue è lava che sgorga dai pugni e la rabbia è la cenere della fenice.
Nate Parker ha curato ogni particolare, ogni dettaglio, ogni sguardo. Un lavoro in cui ogni uomo si misura con il passato, ogni spettatore è attraversato da quel passato oscuro e travagliato come una diaspora millenaria, the black holocaust torna a far tremare i polsi e a rimembrare quanto le insorgenze attuali, i soprusi e i pregiudizi siano figli diretti della dimenticanza.
Nat Turner è stato un profeta, un luminare, segnato da squarci nel petto in tenera età, quei segni furono rivelatori della sua grandezza, di quanto con una piccola rivolta (piccola si fa per dire) avrebbe poi segnato un’epoca, dal microcosmo dei campi di cotone del Southampton alla guerra di Secessione.
Il suo apporto alla liberazione di ogni schiavitù non si limitava allo schiavismo dei bianchi, facendo appello ad un misticismo biblico recitava i versi della Bibbia, declamando Pietro, gli apostoli e Gesù. Le sue conoscenze e la sua storia sono esemplari: venuto al mondo depredato e usurpato di ogni verità e lambito di ogni parvenza di pietà anche alla fine, affinché il suo esempio non potesse essere perpetuato.
La sua storia è stata esemplificata da Nate Parker con un gusto per la sopraffazione simbolista, mai realmente disturbante, forse negli attimi finali senza reiterazioni folli, quasi alla Jodorowsky, con i colori forti, il sangue che si dipana tra la mietitura del grano e la coltivazione del cotone, questi campi estesi e dai quali la cinepresa si solleva mostrandoci dove accadeva il paradosso di un popolo distrutto alle radici, non dai rami.
Ciò che Nat Turner desiderava era insegnare e prodigare i suoi fratelli all’uguaglianza, alla libertà, una libertà che non insegnano nelle piantagioni, che non insegnano le sciabolate e i colpi di frusta, la libertà Nat Turner se la prende con la consapevolezza che Dio è stato iracondo, giusto ma severo e che alla fine, sapendo di essere stato tradito, non sfugge al suo destino ma lascia che esso si compia perché questa morte rappresenta il trapasso dell’uomo, che insegna al mondo come si vive e si muore: da uomini liberi e non da schiavi.
Da Wade in the water a Shortinin bread tante sono state le canzoni che venivano cantate dentro e fuori le piantagioni, ma una su tutte è la canzone che determina la pellicola: Strange Fruit interpretata da Nina Simone.
Una canzone straordinaria e che la pellicola riporta in tutto il suo dissapore. Scritta da Abel Meeropol per Billie Holiday, denuncia quali erano davvero questi frutti strani, quei corpi appesi ai rami che si potevano scorgere ovunque, il sangue era la nuova clorofilla dei pioppi del Sud, un modo che ha la pellicola di mescolare due passati irreversibili e devastanti ma nei quali non manca mai ma proprio mai la poesia del narrato. Nate Parker urla quanto la natura e la mente umana siano state corrotte dalle discriminazioni e lo fa ricordando come un albero invece di donare i suoi dolci doni mostrava frutti amari, cadaveri fluttuanti appesi la per là rabbia, per l’odio, pronti ad essere cibo per i corvi e a far parte del ciclo della vita, dalla terra al cielo.
The Birth of a Nation è una pellicola straordinaria, mostra la schiavitù in un modo disturbante, nocivo ma necessario, che svela e rivela (c’è sempre bisogno di divulgazioni di questo tipo) dove e come trovare il fuoco di un razzismo imperante che sembra sempre sbalordire lo spettatore incurante dei lasciti del passato.
Senza comprensione, senza interiorizzazione del male non si supera, semplicemente non lo si supera. Speriamo che Nate Parker riesca ad aprire le menti, come forse Tarantino non ha saputo fare.