Blackhat: recensione
C’era una volta Michael Mann, regista di grande calibro di film quali Heat e L’Ultimo Dei Mohicani giusto per citarne due. Ma, a giudicare da Blackhat, c’era una volta, e purtroppo non c’è più. Sì perché la sua ultima fatica (anche in senso lato) è un action-thriller a sfondo tecnologico che più che far trattenere il fiato per la suspense e l’ansia di scoprire come vada a finire fa sbadigliare al limite del sonno, nonostante siano le 11:30 di mattina e il sapore del caffè è ancora presente in bocca.
Gran parte della responsabilità per la scialba riuscita di questo film va sicuramente attribuita allo script di Morgan Davis Foehl, che dall’inizio alla fine è un ripetersi e reiterarsi di luoghi comuni e stereotipi, senza quel tocco di autoironia necessaria in operazioni di questo tipo. A partire dalla premessa: un criminale internazionale mette misteriosamente (non viene mai spiegato come ci sia riuscito per tutta la durata della pellicola) mano ad un codice che due ragazzi avevano creato ai tempi della loro permanenza all’MIT, e ovviamente lo usa per seminare il panico a destra e a manca. Alle sue calcagna troviamo un intrepido rappresentante dell’esercito cinese, interpretato da Leehom Wang, che riesce a convincere l’FBI ad “ingaggiare” Nick Hathaway (Chris Hemsworth), suo ex compagno di college attualmente in prigione per crimini cibernetici. Sorpresa sorpresa, i due sono proprio gli autori del codice usato per l’hackeraggio. Sceneggiatura allo stato puro, signore e signori.
Glissando su ulteriori esempi dello stesso genere (vi basti sapere che anche la sorella di Chen Dawai fa parte della combriccola – non si capisce molto il perché – chissà cosa le succederà ad un certo punto della storia!), Blackhat non riserva proprio nessuna sorpresa fino al suo lento e svogliato epilogo, accolto da un generale sospiro di sollievo in sala, con quasi tutti gli spettatori che si stiracchiano ben bene e sbadigliano prima di lasciare i propri posti.
Neanche gli altri settori collaborano, c’è da dire: con i toni della fotografia – spesso associati alla tecnologia – quali blu, grigio e nero (Matrix, dove sei, fratello?), gli effetti sonori spesso troppo sottolineati al punto da diventare fastidiosi e a tratti dolorosi, e il continuo inscenare registico dei meccanismi di trasmissione del virus (seriamente, siamo nel 2015, non negli anni Novanta!) Michael Mann non rende la vita più semplice a nessuno, nemmeno a sé stesso, appiattendo ancor di più un film che se a farne il pitch fosse stato un novellino invece non avrebbe con moltissima probabilità mai visto la luce del sole.
E, onestamente, sarebbe stato meglio per tutti.