District 9: recensione del film di Neill Blomkamp
” In un futuro molto prossimo, l’uomo ha trovato la risposta alla fatidica domanda: siamo soli nell’Universo?”. Candidato a ben quattro Premi Oscar (tra cui Miglior Film) District 9 è sicuramente una delle pellicole di fantascienza più belle e profonde di sempre, anche grazie ad una sceneggiatura robusta e misurata da parte di Terri Tatchell.
District 9 è il biglietto da visita cinematografico datato 2009 di Neill Blomkamp, che di lì a poco avrebbe diretto gli altrettanto fortunati e riusciti Elysium e Humandroid, anch’essi film di fantascienza spiazzanti ed innovativi.
Il film di Blomkamp ci mostra sin da subito un’invasione aliena che si differenzia totalmente da quelle precedentemente viste al cinema. È vero, è arrivata sulla terra una nave spaziale, piena di alieni dall’aspetto vagamente simile a quello di insetti, costretti ad un atterraggio di fortuna poco al di fuori da Johannesburg.
Dopo l’eccitazione, la curiosità e i primi approcci iniziali, a poco a poco gli alieni sono stati costretti ad essere confinati in un ghetto ipersorvegliato e degradato, il Distretto 9 appunto.
In poco tempo però, tra gli abitanti della metropoli sudafricana (una delle più pericolose del mondo) sono subentrati l’odio, l’intolleranza e l’egoismo, sopratutto a causa dell’inasprimento delle tasse, necessarie per provvedere ai bisogni degli alieni, sempre più numerosi e incapaci di integrarsi con gli umani. Col tempo numerose associazioni criminali, i servizi segreti e le multinazionali di mezzo mondo, hanno cominciato ad approfittarsi degli alieni, sovente servendosene per gli scopi più biechi ed immorali.
In questo mondo caotico, si aggira Wikus Van De Merwe (Sharlito Copley, semplicemente straordinario), incaricato di trovare il modo di spostare gli alieni al di fuori dall’area urbana. Wikus è un individuo concentrato solo sul suo lavoro, la sua famiglia e che non prova nulla per quelli che, per lui come per molti altri, non sono che esseri inferiori, un problema da risolvere (o eliminare). In uno dei suoi molti sopralluoghi (nei quali arriva a far sopprimere alcuni feti alieni come nulla fosse) viene in contatto con una sostanza misteriosa, che comincia a farlo sentire strano.
In poche ore Wikus capisce che a causa del contatto inaspettato, si sta lentamente trasformando in un alieno, e che la cosa, oltre a causarne l’allontanamento dal mondo degli umani, lo metterà in serio pericolo di vita. Inseguito dai gangster nigeriani, dalla multinazionale per la quale fino a poco prima lavorava, sarà costretto a fidarsi di un alieno che fino a poche ore prima stava per far rinchiudere.
Wikus si ritroverà perso in un gorgo esistenziale dagli esiti imprevedibili.
La ricchezza e l’importanza di District 9 è sicuramente dovuta in parte alla sua componente plausibile, nel mostrarci un futuro dominato da multinazionali, interessi privati, intolleranza e fanatismo, insomma da tutto quello che ci circonda anche oggi.
La parte del leone la fa senza dubbio la ricchezza tematica che però è sovente dai contorni più sfumati di quello che si creda: è un film sull’emarginazione? Si certo che lo è, ma quale?
“Il film è, in ultima analisi, una lunga disamina sul fenomeno della nuova emarginazione di questo millennio, quella sofferta da chi, in fuga da guerre e povertà, cerca scampo nel nostro viziato e freddo mondo occidentale”
Quella della vecchia apartheid? Che aveva fatto del Sudafrica Pre-Mandela un vero e proprio inferno per i neri?
Le scene di tortura, sopraffazione, il Distretto 9 che in tutto e per tutto è un campo di concentramento (inventati propri qui dagli inglesi) sono un collegamento lampante…tuttavia non è solo il ricordo della vergogna dell’apartheid a farsi strada nella pellicola di Blomkamp.
Il film è, in ultima analisi, una lunga disamina sul fenomeno della nuova emarginazione di questo millennio, quella sofferta da chi, in fuga da guerre e povertà, cerca scampo nel nostro viziato e freddo mondo occidentale. La parola alieno in effetti, ben si adatta e si presta a descrivere la nostra relazione con i profughi e i disperati che attraversano il nostro continente.
District 9: una lunga disamina sull’emarginazione
Nulla ci collega o ci lega a loro, e del resto non vi è alcun interesse da parte nostra per comprenderne il percorso, il dramma, le motivazioni; alieni dunque, non stranieri, ma una forma di vita differente, un qualcosa che non riconosciamo come simile ed affine ma abitato da un’estraneità che ne sovverte la natura umana. Alla fine è solo abbracciandone appieno il percorso di sofferenza, privazione e umiliazione, diventando in tutto e per tutto come loro che il protagonista riacquisterà la propria identità di essere sociale.
Si perché (ed è qui la geniale provocazione del regista) è solo privandoci delle ipocrisie della società postmoderna, abitata da tecnocrazia e individualismo, e riscoprendoci animali sociali, che potremo sperare di ritornare ad essere uomini. Tale percorso (dis)umanizzante porterà il protagonista ad un iroso e paradossale “umani di merdaaaa!!”, dove umani codifica la forma di vita, non le qualità che siamo abituati ad auto riconoscerci.