The Great Wall: recensione del film di Zhang Yimou
Poche opere dell’uomo sono più impressionanti della Grande Muraglia. Frutto di un incessante e non sempre continuo lavoro che risale in alcune parti addirittura al VII secolo A.C., è il simbolo stesso non solo della Cina, ma di tutto l’Oriente antico. Visibile persino dallo spazio, è lunga qualcosa come 8.851 chilometri ed è patrimonio dell’umanità fin dal 1987. The Great Wall, diretto dal grande Zhang Yimou, sublima le leggende ed i miti che si sono costruiti attorno alla più lunga e imponente fortificazione della storia, in quella che è la più grande produzione mai vista in terra cinese, con ben 135 milioni di dollari di budget.
Protagonista è un Matt Damon quasi irriconoscibile nei panni di William, mercenario inglese che percorre steppe e deserti assieme al fido Tovar (Pedro Pascal, la compianta Vipera Rossa) e ad altri avventurieri per cercare di comprare della “polvere nera” che si dice crei il terrore sui campi di battaglia. Inseguiti dai banditi, riescono a seminarli ma la stessa notte vengono attaccati da una strana creatura, alla quale sopravvivono solo William e Tovar; durante l’ennesimo inseguimento sbattono letteralmente contro il Grande Muro e sono catturati dalla guarnigione imperiale.
I due protagonisti si troveranno nel mezzo di una battaglia truculenta, spettacolare e dove dovranno scegliere tra egoismo e altruismo, tra ricchezza e coraggio
Portati al cospetto dei comandanti, scoprono di essere stati attaccati da un essere appartenente alla mostruosa razza aliena dei Taoties, specie di incrocio tra un velociraptor, un alien e un lupo mannaro, e che un’intera orda di questi mostri si prepara ad attaccare la Grande Muraglia, per ottenere un sorta di all you can eat (ecco dove hanno copiato l’idea i cinesi!) nella capitale che (ovviamente) dista pochi giorni dal Grande Muro.
Diretto con maestria da quello che è considerato il Principe della Quinta Generazione dei cineasti cinesi, The Great Wall è un’opera che si porta appresso il nobile intento di fondere il gusto occidentale e quello orientale in un iter narrativo convincente e accattivante. Impresa non facile se si pensa con che tiepida accoglienza sono da sempre accolti i kolossal d’Oriente dalle nostre parti, dove il realismo conta più dell’estetica e dove non è gradita l’idea di soffocare la profondità dei personaggi in nome di una visione del mondo dove il singolo è assolutamente sottomesso al collettivo. Certo, Hero o Lanterne Rosse sono una gloriosa eccezione, ma La Foresta dei Pugnali Volanti o La Città Proibita, pur nella loro magnificenza, non hanno certo aiutato il cinema orientale a trovare proseliti in Occidente.
The Great Wall, diretto dal grande Zhang Yimou, sublima le leggende ed i miti che si sono costruiti attorno alla più lunga ed imponente fortificazione della storia
Ecco perché Yimou ha deciso di operare una cesura per molti versi netta con le sue precedenti opere, immettendo attori occidentali e creando un film dove il contrasto tra stili, elementi narrativi e cultura cinematografica è sublimata dalle stesse performance degli attori. Facendo questo si è attirato molte critiche in patria e anche all’estero, venendo accusato di aver “svenduto” sé stesso e il cinema orientale all’Occidente, ma questa critica appare ingiusta alla luce di quello che è sopratutto un tentativo di avvicinare la mitologia e il cinema cinesi in un modo più “potabile” agli occhi non orientali. The Great Wall è frutto comunque di una ricerca ed un lavoro quasi ventennale da parte del regista cinese, che si deve essere divertito non poco nel dirigerlo…
Dal punto di vista visivo, il film è in tutto e per tutto un kolossal cinese del nuovo millennio dove però emerge in modo prepotente lo stile occidentale, sopratutto in alcune scene d’azione (bellissime quelle nella nebbia o nel palazzo imperiale). Del resto la fotografia è frutto del lavoro a quattro mani tra Stuart Dryburgh e Zhao Xiaoding, e rappresenta un mix riuscitissimo dei migliori elementi di entrambe le tradizioni. Altro aspetto interessante è assistere allo stridere tra i guasconi e un pò volgarotti mercenari europei e l’elegantissima e misurata disciplina estetica delle controparti cinesi, che ad un occhio più allenato rispecchia anche la natura opposta degli stili recitativi e della filosofia che vi sta dietro.
Il film ha anche diversi punti deboli, prima fra tutte la sceneggiatura di Carlo Bernard, Doug Miro e Tony Gilroy
Per 105 minuti lo spettatore è sballottato in un mondo fatto di armature dai mille colori, battaglie sanguinolente, guerrieri volanti e da un 3D che per una volta è una risorsa preziosissima e lascia a bocca aperta lo spettatore. The Great Wall è una gioia per gli occhi e materializza i sogni di chi è cresciuto ad Anime, Manga ma anche con Heroquest o Dungeons&Dragons nell’armadio. Da questo punto di vista The Great Wall raccoglie e sviluppa l’eredità visiva di Peter Jackson nel creare e rendere opera d’arte cinematografica le scene di battaglia. Nessun altro film prima di questo è mai arrivato ad un tale livello di fantasiosa raffinatezza estetica, se non appunto il creatore delle due trilogie dell’anello.
Tuttavia il film ha anche diversi punti deboli, prima fra tutte la sceneggiatura di Carlo Bernard, Doug Miro e Tony Gilroy, che non sviluppano abbastanza i personaggi né le loro motivazioni e appare sorprendente come il Sir Ballard di William Defoe sia un personaggio così scialbo e apatico (forse i Director’s Cut ci diranno di più), mentre Pascal, così convincente nel Trono di Spade, è chiamato a misurarsi con un personaggio forse troppo gigione e volgare per le sue caratteristiche.
I divi cinesi Jing Tian, Andy Lau, Zhang Hanyu e Eddie Peng svolgono il loro compito con coscienza e spesso rischiano di rubare la scena anche a Matt Damon
I divi cinesi Jing Tian, Andy Lau, Zhang Hanyu e Eddie Peng svolgono il loro compito con coscienza e spesso rischiano di rubare la scena ad un Matt Damon che a volte appare molto discontinuo, tanto ispirato in alcuni momenti (quando sposa una personalità gelida o spaesata) quanto poco credibile quando dovrebbe essere appassionato o sensibile. L’asso nel mazzo sono sicuramente i Taoties, creature di una bruttezza e cattiveria come non se ne vedevano da anni, e l’aver ricreato in modo così perfetto una delle creature più importanti della mitologia cinese non è cosa da niente.
Resta però il fatto che far fare la sceneggiatura solo ad addetti ai lavori statunitensi (in un film dalle premesse multiculturali) è stato sicuramente un errore imperdonabile da parte della produzione, dal momento che i momenti comici od ironici sono poco riusciti e sembrano usciti dai peggiori blockbusters degli ultimi anni. Per carità, manca uno smieloso happy end hollywoodiano per fortuna, così come le frasi ad effetto da Olio Cuore care ad un certo cinema occidentale, ma il film è forse troppo veloce, troppo frenetico, a volte un pò freddo e un mezzoretta in più non avrebbe guastato.
Alla fin fine però occorre sempre ricordarsi, quando si giudicano film di questo tipo, che sono ben pochi i casi in cui un lungometraggio dall’estetica così prepotente si sposi con una profondità o complessità della trama di alto livello ed in questo la differenza tra The Great Wall e i film di Jackson rimane ancora molto ampia.