Il diritto di contare: recensione del film con Taraji P. Henson, Octavia Spencer e Janelle Monáe
Il diritto di contare è un film esplosivo, ironico, audace. È un film che rende giustizia a Katherine G. Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson con matematica dolcezza, concedendo a ogni dettaglio, sfumatura, fatto, la visibilità necessaria a farci apprendere che Il diritto di contare è si la rappresentazione della corsa dell’uomo sulla Luna, ma dal punto di vista di chi non è mai andato oltre la stratosfera; dalla prospettiva di chi è rimasto ancorato su una terra che non poteva neanche sentire propria, in un Paese segregazionista come l’America degli anni ’60.
Il diritto di contare, diretto da Theodore Melfi e basato sul libro Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race di Margot Lee Shetterly, è il racconto di una corsa al progresso e all’emancipazione. Un film che pone l’accento sulla famosa missione Apollo 11 portando a galla i retroscena di quell’impresa e soprattutto le Figure Nascoste (Hidden Figures, appunto, come recita il titolo originale) che lavorarono per rendere possibile questa titanica impresa.
Katherine G. Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, mirabilmente interpretate da Taraji P. Henson, Octavia Spencer e Janelle Monáe, sono quelle “figure nascoste” che hanno lottato per uscire dall’oblio.
Ma di loro sui libri non c’è nessuna traccia. A scuola ci insegnano il nome di chi ha messo per la prima volta piede sulla Luna (Neil Armstrong, il 20 luglio 1969) e magari i nomi di chi ha coadiuvato la missione, ma nessuno ha mai dato rilevanza alle calcolatrici umane, ovvero quelle donne che svolgevano il compito adesso svolto dalle moderne tecnologie; che lavoravano nell’oblio, staccate dal resto del personale NASA, percependo stipendi più bassi perché donne e perché di colore.
Theodore Melfi dirige Il diritto di contare basandosi su una sceneggiatura scritta insieme ad Allison Schroeder e ponendo l’attenzione sulla figura della matematica, scienziata e fisica afroamericana Katherine Johnson (di cui veste i panni un’incredibile Taraji P. Henson), del suo talento smisurato nell’arte matematica, che nella rappresentazione filmica acquista una reale personificazione, quasi al limite dell’arte.
Ma la bellezza del personaggio di Katherine Johnson è che oltrepassa la sua storia – ovvero quella di una bambina molto dotata che viene indirizzata a fare di più dagli stessi insegnanti – per dileguarsi oltre i confini dell’egocentrismo e dell’egoismo.
Così, pur avendo un ipotetico occhio di bue fisso su Katherine, la sua aurea sarebbe scarna senza il supporto di Octavia Spencer e Janelle Monáe (che interpretano rispettivamente Dorothy Vaughan e Mary Jackson). Tre donne così differenti eppure così simili tra loro.
Un po’ imbranata, dolce e timida la prima; vulcanica e risoluta la seconda e attraente e linguacciuta la terza. Donne molto diverse tra loro per modi di fare e di essere, ma tutte accomunate dalla determinazione e dalla forza di volontà che le porta a essere protagoniste e ad avere “il coltello dalla parte del manico” in una situazione in cui sarebbero state costrette a essere le ultime della lista. Dopotutto è quello che accade quando al talento si unisce un pizzico di furbizia e una bella faccia tosta!
Contando su una colonna sonora spaziale – composta da Pharrell Williams, Hans Zimmer, Benjamin Wallfisch – che sa agitarsi, commuoversi, ansimare e far sognare; su una fotografia limpida e scultorea – merito di Mandy Walker – e su un’interpretazione azzeccatissima di tutti gli attori – in cui si annoverano un affascinante Kevin Costner nei panni del leader dello Space Task Group Al Harrison (un ruolo inventato per un personaggio che l’autore immagina intelligente, poco incline a sottolinerae le differenze, determianto e capace di spronare i suoi collaboratori), una bellissima quanto impeccabile Kirsten Dunst nei panni della gelida Vivian Mitchell, supervisore della NASA incaricata di gestire i “computer umani” – Il diritto di contare si regge su equilibri sottilissimi, centellinati e misurati proprio come i conteggi che condussero gli americani nello spazio.
Il diritto di contare trasuda pienamente il suo fascino nell’identità delle tre eroine, nello spazio concesso alla loro vita privata, ai loro sogni e alle loro lotte.
È infatti non calcando troppo la mano sui numeri che Theodore Melfi sa annullare la sincronia, all’epoca scontata, tra queste lavoratrici e la loro mancanza d’identità all’interno della NASA. Lontane dalle loro scrivanie Katherine G. Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson sono prima di tutto donne, mogli e madri; prima di essere competitive colleghe sono persone che si coalizzano per un bene comune, che si tendono la mano.
E questo marcato modo d’essere è in fondo al filosofia basilare di tutto il film, ma non solo: è la base stessa di tutta la storia e del nostro progredire verso il futuro. Fidarsi del sapere passato per sopravvivere al presente e incamminarsi verso il futuro e farlo insieme, bianchi e neri, uomini e donne.
Per concludere, quella che vediamo in Il diritto di contare è una storia fatta di coraggio, umiltà, ambizione; un racconto a tratti divertente, ispirante e che ci fa anche essere orgogliosi di appartenere al genere umano.
Il diritto di contare, in uscita nelle sale cinematografiche italiane l’8 marzo distribuito da 20th Century Fox, sa davvero portarci nello spazio insieme all’astronauta John Glenn (il primo americano ad andare nello spazio, qui interpretato da Glen Powell), tenendo a freno lo stupore e mettendo in risalto il sacrificio, il talento e la costanza, in una rappresentazione lontana dall’ipocrisia e sempre più vicina alla storia che nessuno ci ha mai raccontato.