Il permesso – 48 ore fuori: recensione del film di Claudio Amendola con Luca Argentero
Sono cinque i protagonisti de Il permesso – 48 ore fuori: quattro individui vittime di una vita sbagliata e, interprete silenzioso, il carcere. È un’istituzione che c’è, ma si intravede. La porta di una cella che sbatte e qualche ripresa esterna di un enorme complesso giallognolo, nulla più. Eppure della prigione se ne parla e rimane – come fosse un vero e proprio personaggio nemmeno troppo di supporto – a condizionare il film e la nostra visione dall’inizio alla fine.
Il permesso – 48 ore fuori, è il secondo film da regista di Claudio Amendola, qui anche tra gli interpreti nel ruolo di Luigi, in carcere da 17 anni, padre che teme per il futuro del figlio intenzionato a seguire le sue orme. Accanto a lui un inedito Luca Argentero: è Donato, pugile prestato alla malavita per combattere in violenti incontri clandestini all’ultimo sangue; userà le sue 48 ore di libertà per ritrovare Irina, sua moglie. Poi ci sono i giovani Giacomo Ferrara nel ruolo di Angelo – in carcere per rapina, ma in cerca di redenzione -, e Valentina Bellè: interpreta Rossana, ragazza di buona famiglia, ribelle e bisognosa di attenzione.
È un cast interessante e ben selezionato quello de Il permesso – 48 ore fuori: ognuno reinterpreta e comunica con la giusta intensità le caratteristiche segnanti dei personaggi.
Particolarmente interessante è l’Argentero prestato all’azione, lontano dalle solite commedie romantiche: è un duro senza scrupoli che ricorda, a fasi alterne, il Liam Neeson di Taken e – per una scena in particolare – il Brad Pitt a torso nudo di Fight Club. A colpire, poi, è l’intensità della Bellè, che si percepisce – soprattutto – grazie alla profondità dello sguardo, dal quale è impossibile staccarsi.
A tirare le fila troviamo un Amendola qui nel suo habitat naturale. Non serve, forse, soffermarsi troppo sul lato attoriale, visto che questo ruolo – un padre disposto a tutto per riportare sulla retta via il figlio – non fa altro che confermare la sua bravura. Considerando che il suo debutto registico era stato La mossa del pinguino (commedia brillante con Edoardo Leo e Ricky Memphis), è inevitabile rimanere sorpresi dal salto di genere.
Ci troviamo nel noir, con sfumature action e un sottofondo drammatico, scritto da Giancarlo De Cataldo (autore di Romanzo Criminale e Suburra) e Roberto Jannone (L’anniversario, 1998). Claudio Amendola regista si concentra sulle soggettive, sugli occhi dei suoi attori, spesso sulle microespressioni. I momenti più ampi servono a raccontare l’ambiente, che sia il degrado della periferia, il lusso del quartiere Parioli di Roma, un lungomare. Lo spazio serve a raccontarci la storia, serve a identificare i protagonisti, nulla più.
L’idea fondante de Il permesso – 48 ore fuori, è un soggetto interessante che incrocia – in una finestra temporale che sembra infinita – quattro storie, quattro archetipi di vita.
Tutti, però, sembrano essere trascinati verso il finale da una forza che trascende tutto: l’amore. Che si tratti dell’amore incondizionato di un padre per il figlio o quello di un marito per la moglie. Che sia l’amore che una ragazza cerca nella madre o di un sentimento appena scoperto. I quattro protagonisti sono accomunati – sotto le scorze dure e la “puzza di galera” – da una sensibilità emotiva che solo una buona scrittura è in grado di comunicare al pubblico.
Insomma, un pacchetto regalo confezionato da una fotografia adatta e ordinata e un montaggio che rende scorrevoli le quattro vicende parallele (per un caso, incidenti). È un esperimento interessante quello di Claudio Amendola che, tutto sommato, quell’amore per il noir riesce a comunicarcelo. Un’occasione sprecata è caratterizzata dalla musica: colonna sonora composta da brani azzeccati ed eterogenei, ma spesso eccessivamente autoreferenziali. La canzone che parla di fatica nei momenti di fatica o il motivo eccessivamente di suspance causano, nello spettatore abituato ai film del genere, quasi una reazione comica ricordando – vagamente – una strana soap-opera.
Il permesso – 48 ore fuori è un tentativo apprezzabile di “rinnovamento del cinema italiano”. Se, però, la volontà (dichiarata) è quella di ispirarsi ai grandi film americani o francesi che hanno fatto del genere un importante cavallo di battaglia, questa non appare così intensamente perseguita. La qualità c’è, la voglia di fare pure, manca solo, forse, un’identità precisa che sicuramente non tarderà ad arrivare. Noi, aspettiamo con impazienza.