LFFEC17 – The Origin of the Species – Keith Richards: recensione del documentario di Julien Temple
Dopo le sue fondamentali opere su Sex Pistols (La grande truffa del rock’n’roll e Oscenità e furore) e su Joe Strummer (Il futuro non è scritto – Joe Strummer) e il cult Absolute Beginners con il compianto David Bowie, il cineasta britannico Julien Temple si concentra su un’altra colonna portante della musica mondiale come il chitarrista dei Rolling Stones Keith Richards con il documentario The Origin of the Species – Keith Richards, andato in onda sulla BBC e presentato in anteprima italiana al Lucca Film Festival e Europa Cinema 2017. In circa 80 minuti, il regista rappresenta un ritratto intimo e inaspettatamente sobrio su una delle più controverse ed esuberanti rock star, fondendo il racconto dei primi anni di vita di Keith Richards con una lucida analisi di società, costume e morale comune dell’Inghilterra del dopo guerra.
The Origin of the Species – Keith Richards: un caleidoscopio di immagini d’archivio e ricordi, che ci permette di connetterci con l’uomo dentro l’artista
Julien Temple sceglie audacemente di concentrarsi solo sui primi 20 anni di vita di Keith Richards, incentrando il proprio racconto sul contesto familiare e sociale che ha contribuito a formare una leggenda vivente della musica mondiale. In The Origin of the Species – Keith Richards non troviamo quindi nessun esplicito riferimento ai successi e agli eccessi del musicista o agli infiniti aneddoti che da sempre accompagnano gli Stones, e gli stessi indimenticabili brani del gruppo rimangono singolarmente sullo sfondo, accompagnando in maniera discreta e puntuale la toccante messa a nudo del protagonista. Le parole limpide e appassionate di Keith Richards guidano un caleidoscopio di immagini d’archivio, ricordi e riprese realizzate ad hoc, che ci permette di connetterci con l’uomo dentro l’artista e di comprendere appieno la sua proverbiale ribellione a istituzioni e morale comune e il suo lento avvicinamento alla musica ribelle per antonomasia, ovvero il rock.
La narrazione di The Origin of the Species – Keith Richards è rilassata, familiare e priva di quegli slanci enfatici che ci si potrebbe aspettare nel ritratto di un personaggio così sopra le righe e fuori dagli schemi. Lo spettatore in cerca di dettagli fragorosi e sconvenienti sulla vita e sulla carriera di Richards rimarrà quindi probabilmente deluso nel ritrovarsi al monologo misurato e contenuto di un atipico nonno, che spazia con grande naturalezza dalla narrazione di un’Inghilterra minacciata dalle bombe nemiche (che distrussero la prima casa di Keith Richards) alla raffigurazione di due genitori e un nonno completamente diversi fra loro per modi, carattere e interessi, ma tutti ugualmente importanti per la formazione individuale e artistica del protagonista.
The Origin of the Species – Keith Richards dona umanità, scorrevolezza e un pizzico di malinconia al racconto del cambiamento di un uomo e della terra che gli ha dato i natali
Julien Temple è abile a indugiare sul volto di Keith Richards e a scandagliarne anche le emozioni più recondite e represse, donando umanità, scorrevolezza e un pizzico di malinconia al racconto del cambiamento di un uomo e della terra che gli ha dato i natali, dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale all’arrivo del benessere e dei primi effetti del capitalismo. Il regista riesce così nel difficile compito di soddisfare lo spettatore senza ricorrere a nessun facile escamotage narrativo e senza abusare della sconfinata produzione musicale del protagonista, presentandoci la fotografia di un uomo che con tutti i suoi pregi e i suoi difetti rivela un’inaspettata tenerezza e una sorprendente sensibilità.
All’interno dell’ampia produzione audiovisiva sull’ammirato e discusso Keith Richards, The Origin of the Species – Keith Richards di Julien Temple si distingue per il tatto e la sensibilità con cui analizza una figura così complessa e ricca di sfaccettature, rivelandosi una visione decisamente sorprendente e soddisfacente nella sua atipicità. La conferma della poliedricità e del talento narrativo di un regista sottovalutato e lontano dai clamori hollywoodiani, che sa però raccontare come pochi i cambiamenti sociali e culturali attraverso ritratti solidi ed eleganti di grandi personalità della musica mondiale.