La Grande Bellezza: recensione

La Grande Bellezza è un film labirintico, un parto naturale della mente di Paolo Sorrentino che ha fatto di una pellicola una reale visione del mondo e non solo perpetui aforismi in rotazione.

La Grande Bellezza è stata presentata al Festival di Cannes 2013, un film con Toni Servillo nei panni del mondano, malinconico giornalista Jep Gambardella, affiancato da simulacri quali Romano (Carlo Verdone), Ramona (Sabrina Ferilli) e Lello (Carlo Buccirosso), nomi che sottendono ambizioni o solo simboli di un adulterio borghese, implacabile tessuto delle pagine dell’opera.

Dopo un incipit etereo e sublime, arriva a sfondare lo schermo un urlo che squarcia i timpani e che dà il via ad un odierno teatro picaresco, il quale tornerà in modo sinusoidale all’interno della pellicola. Jep Gambardella partecipa e organizza feste continue con i suoi amici onnipresenti tra cui Lello, un venditore di giocattoli comico ed infedele, Romano che nasce come attore e scrittore di teatro in perenne fallimento che è perdutamente invaghito di una donna che lo ignora sistematicamente, Viola che è la presenza più alto borghese della pellicola simile ad altre donne di quella cerchia, come Stefania, tanto persa tra la mondanità e l’opulenza che non riuscirà a sostenere un figlio, Andrea (Luca Marinelli), pieno di psicosi e travagli interiori.

La Grande Bellezza è ciò che rimane ad uno scrittore depredato del suo verbo

la grande bellezza

Le loro storie sono unite dalla vita di Jep, dalle sue feste, le danze e i trenini senza meta, musiche assordanti in loop paratattico. Il nesso nasce fondamentalmente da considerazioni postume, dopo il compleanno di Jep, i suoi 65 anni scatenano bilanci esistenziali che pongono il suo vissuto sotto la luce dell’avvenire, della morte, della ripetitività delle sue giornate, cresce l’horror vacui scatenato dalle sue velleità crollate, o mai perseguite, contrariamente al suo talento come scrittore di un unico romanzo in giovinezza e al dipanarsi di una summa di pensieri che ne argomentano il conflitto.

La morte di Andrea, per suicidio e poi di Ramona, per una malattia a noi ignota, costringeranno Jep a riconsiderare tutto il suo tempo, ciò che ha fatto, ciò che ha perso, tutti gli elementi determinanti della sua pseudo anti-crescita, bloccata come in un forziere dalla fine di un amore, l’unica donna della sua vita: Elisa. Proprio una mattina, di ritorno da un’altra nottata dissoluta, incontra il marito di Elisa e lui lo informa della morte di lei. La disperazione lo ingloba, lo attanaglia, è insostenibile apprendere una notizia del genere. Il marito inoltre gli rivela che Elisa per anni ha tenuto un diario in cui ha descritto il suo sincero amore mai cessato per Jep e l’inconsistente affetto per lui. Le loro strade si dividono con la stessa velocità in cui sembrano trovarsi.

la grande bellezza

La Grande Bellezza è ciò che rimane ad uno scrittore depredato del suo verbo, Jep Gambardella è occluso in un soliloquio lungo trenta anni in cui lima e considera ciò che lo ha sempre differenziato dagli altri, senza che questo sia mai stato messo in risalto da nessuno oltre che da sé stesso.
Jep è una monade annidata tra le urla dissonanti dei suoi demoni e le ottuse blaterazioni dei suoi vizi. I suoi conflitti, la trama sono soggetti a sé stanti. La passività e il fallimento di una vita derivano dalle disillusioni, dalla costruzione di un mondo separato dai sentimenti in cui sguazzare senza timore di essere feriti. Una pellicola che sarà alternata da digressioni passate, omissioni precise, slanci anticlimatici intesi come anticlimax, questo per ragionare su una narrazione che dà tantissimo fin da subito.

La narrazione non è in reale ascesa ma più un muro ampio che lentamente viene illuminato, senza grandi picchi; gli unici veri picchi sono conservati nella mente, nella nostalgia delle cose, che sorgono come una memoria involontaria. Questo è l’unico tempo della pellicola: il tempo interiore. 

io non cerco il porto, ma il mare aperto. 

La vita va vissuta con distacco, senza fardelli sociali e automatismi biologici; l’arte è la cosa più importante, né la stessa vita nemmeno l’amore che devono rimanere nel retrobottega. Certo un’operazione molto difficile, se non ipocrita ma nel film tutto ciò è solo un mero esercizio di stile, un sunto di quell’autoanalisi esistenziale che ogni personaggio nel suo piccolo è portato a fare ma non a mettere in pratica.

L’unico che riesce a metterla in pratica è Romano. L’inafferrabilità del film è immersa sia nelle pillole citazionistiche poste come soprammobili di benvenuto, sia nel suo modo di conciliare l’estetismo magrittiano con una narrazione proustiana, nelle musiche, nell’eleganza dei piano sequenza, sia nelle tecniche narrative puntellate dall’autodiegeticità del narratore, Jep, che riferisce alcuni particolari della sua vita senza andare ad intaccare altri personaggi presenti, il suo punto di vista è bloccato al giudizio della sua vita, la sua sola ottica è sul suo universo, l’unico orizzonte in cui potrà raffrontarsi.

La Grande Bellezza è un film inafferrabile

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Sarà un segno distintivo di Paolo Sorrentino quello di creare frasi ad effetto o epigrammi da accademia della Crusca, ma il suo biglietto da visita è talmente chiaro da essere inafferrabile proprio per gli stessi motivi: certo, la Grande Bellezza è ampiamente densa di parole, ne è satura, lo spettatore si sente soffocare nell’oceano della metafisica, gli orpelli e i pizzi che addensano la pellicola possono essere gemme di rara apparizione o considerati macigni di ineguagliabile gravità.

I romani (ma quanti romani realmente ci sono nella pellicola? Forse solo gli attrezzisti) sospinti da un’inerzia esistenziale, vagano come zombie alla ricerca del nulla. Ecco, questo è il simbolo più illuminante di tutta la pellicola, denunciato proprio da Flaubert, che lo stesso Jep cita, ma attenzione: il suo intento era sì scrivere un libro sul niente ma non nel senso pressapochista che viene accennato e sperperato dal pubblico. Il suo romanzo sul niente era un modo per dimostrare che desiderava porre l’attenzione all’interiorità, in cui il soggetto fosse quasi invisibile, senza riferimenti con l’esterno, forte del suo stile, del linguaggio. Paolo Sorrentino, tra l’architettura e l’artigianato, impalca un teatro sull’educazione sentimentale di una generazione impersonale,  diafana e greve sorretta da illusioni, però cosciente della sua mediocrità, usurata da un quotidiano pietoso, fallimentare, la cui insensatezza è comunque parte di un’esistenza che è avvalorata da un bagno di vapore di frustrazioni perenni. L’unico valore degno di essere sottolineato si declina proprio nella negazione, nel declino, quella fatalità inoperosa che stava a Flaubert come a Sorrentino.

La musica di Lele Marchitelli condensa tutto l’empirismo spazio-temporale di Roma

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Le musiche sono affidate ad un maestro, Lele Marchitelli, che ha condensato tutto l’empirismo spazio-temporale di una città quale Roma, che ha quei manierismi tipici di qualsiasi epoca, basta dire un secolo e Roma c’era, presente anche a chi non l’ha mai considerata e continua ad ignorarla, tant’è che questo affronto alla sua complessità viene sussurrato da Sorrentino dallo spioncino dell’uscio della villa del Priorato di Malta, una delle poche volte in cui il regista sale di alcuni gradini e lascia qualche sbavatura qua e la.

Citati diversi scrittori della letteratura di tutti i tempi, quali Proust, Flaubert, Dostoevskij, Pirandello, Stendhal che resta un’evocazione iniziale, essi possono essere intrapresi come punti di accesso ma non indicheranno mai la vera strada da percorrere, sono e restano punti fermi dai quali captare i dissidi e le caratteristiche più o meno pronunciate dei personaggi.  E non solo, la Grande Bellezza non è solo partorita dalle humanae litterae, ma da un bel numero di pellicole del passato, alcune più presenti di altre, come La Dolce Vita, verso la quale Sorrentino si sente debitore di un concetto eterno: quello di cercare la bellezza nello squallore. Il suo più grande vezzo è inserire l’io in ogni personaggio, in ogni emozione, ogni scena è dettata dal suo occhio biografico. L’elemento quasi brutale è come ci si orienti all’interno delle sue pellicole, in cui alberga una tematica, una verità molto più ricorrente delle altre: la solitudine.

La Grande Bellezza nasce dalla necessità di raccontare quell’universo romano, vizioso, superficiale, circoscritto e che non riesce ad andare al di là delle proprie intenzioni , un’opera ibrida inginocchiata alla maestosa meraviglia di una città smarrita, i cui abitanti hanno scelto la paralisi emotiva per non scegliere l’arido fossato del nulla.

Il 27 giugno 2016, dopo tre anni dall’uscita in sala del capolavoro di Paolo Sorrentino, è stata presentata la versione integrale del film, con 30 minuti di scene inedite.

Giudizio Cinematographe

Regia - 5
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 5
Recitazione - 5
Sonoro - 5
Emozione - 5

5

Voto Finale