Cannes 2015 – La Tête haute: recensione del film d’apertura
Come anticipato ieri nel diario quotidiano in diretta da Cannes 2015, è stato La Tête haute di Emmanuelle Bercot ad aprire le danze della 68esima edizione della kermesse francese. Un film asciutto, nel quale la regista ha voluto inquadrare con sguardo quasi asettico e a tratti perentorio non tanto il percorso di maturazione di un ragazzo difficile, Malony (Rod Paradot), quanto l’eccellenza della giurisdizione francese in termini di tutela dei minori. Una pellicola che potrebbe sembrare affine ma in realtà completamente diversa dall’indimenticabile Mommy di Xavier Dolan, che l’anno scorso si aggiudicò a Cannes il premio della Giuria (di cui il giovane regista quest’anno fa parte), in cui la Bercot sceglie di lasciare sullo sfondo il percorso interiore e l’approfondimento delle premesse del malessere del protagonista in favore della descrizione documentaristica dell’iter socio- giuridico intrapreso per la sua riabilitazione.
Malony cresce con una madre immatura ed irresponsabile (Sara Forestier) , stressata dal peso di una maternità di cui in realtà non sa farsi carico; l’ambivalenza della donna, apparentemente affettuosa ma completamente inadeguata al ruolo, viene presentata come la causa diretta delle problematiche psicologiche del bambino che, una volta adolescente, tende ad avverare le aspettative della madre diventando un delinquente con tendenze autodistruttive. Restio ad accettare l’aiuto degli altri, il ragazzo ha la fortuna di trovare lungo il proprio cammino la miglior accoglienza possibile da parte delle istituzioni che, tra prove ed errori (e forse eccessive indulgenze), riesce a restituire alla società un giovane uomo pronto ad affrontare la vita con maggior fiducia in sé e nel proprio prossimo.
La Tête haute possiede l’ammirevole ambizione di parlare bene di uno Stato, la Francia, in cui l’ambito della tutela dei minori sembra essere un vero e proprio fiore all’occhiello. Ciò che non convince ed appassiona, tuttavia, è la mancanza di introspezione con la quale vengono presentati i personaggi, le cui dinamiche psicologiche restano in ombra non permettendo allo spettatore di empatizzare sufficientemente con i protagonisti. Il tema dell’importanza di infondere fiducia in sé stessi nei casi di disagio giovanile emerge invece prepotente, come altrettanto forte ed efficace è il ritratto di un’indole violenta che è spesso conseguenza di una mancanza di strumenti e competenze nel gestire le emozioni e che, se contenuta ed indirizzata nel modo giusto, può rivelare una grande sensibilità mal indirizzata ed essere completamente risolta. A tal proposito, per arrivare dritto all’obiettivo la Bercot si è servita di una scena d’ “amore” profondamente disturbante ma potentemente simbolica, in cui la perfetta consapevolezza dei limiti di Malony permette alla fidanzatina di superare l’oltraggio di un rapporto che avrebbe tutte le caratteristiche dell’abuso, ma che rivela invece l’immenso dolore del ragazzo nel mettere se stesso nella mani di qualcun altro.
Perfetta la divina Catherine Deneuve nei panni del giudice competente ma amorevole, la cui performance, insieme a quella altresì intensa del counselor Benoît Maginel – restituisce alla pellicola quel tocco di sentimento e riflessività di cui la narrazione si rende carente, sfruttando alcuni spunti “facili” (il Natale alle porte, la paternità) per ammorbidire il cuore dello spettatore, che resta invece distratto dalla supremazia del messaggio nazionalistico, del quale l’ultima scena – un trionfo più di bandiere che di esseri umani– si rende sfavillante ambasciatore.