Mad Max Fury Road e The Rover: deserti distopici a confronto
Cannes 2015: la presentazione alla 68esima edizione della kermesse cinematografica francese di Mad Max Fury Road ha raccolto l’ovazione di pubblico e critica; Il nuovo action movie dell’australiano George Miller, regista premio Oscar nel 2006 per Happy Feet, è riuscito pienamente nell’intento di non far rimpiangere il grande Max del passato, l’icona Mel Gibson, trasferendo i panni dell’ex poliziotto, impazzito per non essere riuscito a salvare moglie e figlia, su un poliedrico fuoriclasse quale Tom Hardy.
Il tema è quello di un futuro indesiderabile caratterizzato da un crollo dei sistemi economici che ha portato l’umanità ad una strenua lotta per la sopravvivenza, un mondo in cui il potere è nelle mani di un leader totalitario senza scrupoli – Immortan Joe – disumanizzato ed esaltato dallo stesso stato di insostenibile malessere del quale la Terra Desolata è ormai impregnata. Si vive solo per combattere ed addestrare soldati fedeli fino alla morte, in una società in cui le donne sono ridotte a macchine per mettere al mondo nuovi figli, e quindi, nuovi guerrieri, pronti a sacrificare la loro stessa vita e raggiungere la gloria nel Valhalla, il paradiso dei morti in battaglia. Contro questo regno l’imperatrice ribelle Furiosa (Charlize Theron), determinata a tradire Immortan Joe portando in salvo le sue Cinque Mogli verso la chimera di quella Terra Verde che le ha dato i natali e che costituisce ora l’unica speranza di redenzione e di un futuro migliore.
Facciamo un passo indietro: proprio lo scorso anno un altro regista australiano, noto per il pessimismo cosmico, David Michôd, presentava a Cannes nella stessa categoria – Horse Compétition – il drammatico The Rover. Con protagonista Guy Pearce e l’altrettanto britannico rispetto ad Hardy, Robert Pattinson, il racconto distopico di Michôd parte dallo stesso spunto di Mad Max per inquadrare, tuttavia, un mondo finito ma passivo, in cui la sopravvivenza non è più qualcosa per cui valga la pena lottare, popolato da persone che hanno perso ogni peculiarità o pietas in grado di contraddistinguerle in quanto tali. Unico barlume di purezza l’animo del giovane Rey (Pattinson) che, come un fedele segugio, decide di obbedire al proprio padrone – l’enigmatico e cinico Eric – (Pearce) nella speranza di un qualunque contatto umano, seppur brutale e anaffettivo. Obiettivo dell’alleanza, il recupero di una macchina al cui interno c’è l’unica cosa per cui Eric è ancora motivato ad agire.
Due pellicole con molti punti in comune ma realizzate da due registi dotati di linguaggi completamente differenti; in entrambe si parla di un domani apocalittico ambientato nel deserto e popolato da figure che di umano hanno ormai ben poco , ma se in The Rover non esiste più speranza né di una vita migliore né di fratellanza, in Mad Max: Fury Road la speranza è tanto forte da rendere folli e ognuno insegue il proprio “Nirvana” strenuamente, ridimensionando le proprie aspettative sulla base di ciò che ancora è possibile ottenere dalla vita: un bene prezioso racchiuso tanto nel ventre di una donna incinta quanto in una vecchia borsa colma di semenze in grado di spronare una terra ormai arida e violentata ad essere ancora feconda.
Tale contrapposizione alla base della poetica dei due registi è perfettamente evidente già dall’uso dei colori: spenti e senza vita in The Rover, accesi e sfavillanti in Mad Max: Fury Road, dove la scala cromatica rispecchia ed esalta le sfumature dei quattro elementi alla base della vita: il giallo ocra della terra, il rosso del fuoco, l’azzurro dell’aria e la trasparenza dell’acqua ubriacano letteralmente gli occhi dello spettatore, a voler costantemente ricordare e sottolineare che per Miller, a differenza di Michôd, c’è ancora qualcosa da salvare in questo mondo alla deriva.