Youth – La Giovinezza: recensione
Un invito a godere delle piccole cose, è questa la massima che traspare da Youth – La Giovinezza, il nuovo film diretto da Paolo Sorrentino che, dopo aver attraversato il tunnel dorato dell’Oscar con La Grande Bellezza è pronto anche quest’anno a sfidare la dea bendata della settima arte, recandosi in quel di Cannes dove – riporta la nostra inviata – si è condensata un’inevitabile opposizione di pareri.
In occasione del suo secondo film in lingua inglese, il giovane regista napoletano si serve della maestosità attoriale di Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano e Jane Fonda, distaccandosi dalla calorosità della Capitale per dirigersi nel cuore verde delle Alpi svizzere.
Fred (Michael Caine) e Mick (Harvey Keitel) sono due amici di vecchia data, arenatisi lungo il precipizio dei loro ottant’anni, in una concezione esistenziale in cui non è prevista continuità, bensì un semplice tornare indietro tramite ricordi felici che purtroppo, nella burrasca delle loro vite devastate, sembrano restare impigliati in un presente statico e privo di migliorie.
L’hotel in cui alloggiano è una cassaforte silenziosa, rispettosa e artisticamente imponente: un teatro in cui corpi cadenti e tondeggiati o altresì tonici e pieni di vita danno spettacolo di sé prestandosi senza opposizione alla metamorfosi di un specchio d’acqua o alla pressione di giovani e sapienti mani, che silenziosamente modellano, recano sollievo e abbelliscono chi della forma fisica non sa più cosa farsene.
A far da protagonista, però, non è tanto l’esperienza fugace dei due, quanto la loro essenza, quella che il regista non mette in scena, bensì adagia a piccole dosi lungo il palcoscenico delle sensazioni, intromettendosi nel labirinto della psicologia umana e della sua reazione alla vecchiaia. La vacanza primaverile di Fred e Mick è intervallata da constatazioni circa la salute della prostata a rimembranze del loro passato glorioso con il quale, nel bene e nel male, non hanno mai chiuso i conti. Così, mentre Mick resta fortemente avvinghiato alla sua figura di regista, intenzionato a firmare attraverso la pellicola il suo testamento morale, intellettuale e artistico, Fred si rifiuta di tornare a dirigere l’orchestra, trincerandosi in “motivi personali” vaghi e incomprensibili agli estranei.
La musica di David Lang è una divinità onnipresente e ossessiva, capace di solcare il cuore con ramificazioni strazianti d’infinito, che raramente allentano la tensione. Ma il filo rosso della carriera di Fred non raggiunge l’acme alla fine, con l’approvazione del pubblico e la presenza della soprano Sumi Jo, bensì al centro nevralgico della pellicola, in cui le sue mani danzano su immaginari spartiti, dirigendo adagio la natura: la sinfonia più dolce ed eterna che esista.
Nei meandri di un luogo apatico si susseguono inquadrature sobrie e dai colori assenti: profili in carne e ossa incastrati perfettamente ad opere d’arte prive del loro smalto primordiale; corpi nudi che si concedono in tutta la loro umanità, senza paura di mostrarsi, consci del fatto che il loro tempo è ormai volato via e pelle, tanta pelle, che abbonda sullo schermo (senza tralasciare neanche il minimo di dettaglio di imperfezione o perfezione) come a creare un tappeto umano. Ma ciò che più sconvolge sono quei volti immortalati: estrapolazione diretta di un Caravaggio moderno, armato di scatti in cui emergono punti di luce come dagli abissi.
Come altre opere di Sorrentino, anche Youth cela al suo interno diverse chiavi di lettura, in grado di mimetizzarsi in base alle nostre emozioni e al nostro percorso di vita. Senza dubbio resta incisa nella coscienza la volontà errata di insabbiare la bellezza della vita nelle ceneri della vecchiaia, salvo poi lasciarsi riscoprire sul finale, nella scintilla di una giovinezza che non conosce età.