Cannes 2015 – Macbeth: recensione
Quando si sceglie di portare in scena un grande classico il rischio è direttamente proporzionale al peso dell’autore e dell’opera che si desidera trasporre; quando l’artista in causa è William Shakespeare..”ça va sans dire”, direbbero gli abitanti di Cannes, le insidie aumentano esponenzialmente.
Le reazioni alla proiezione di Macbeth, che si è tenuta questa mattina al Grand Thèâtre Lumiére, sono state miste: nutriti applausi ma anche qualche fischio. Questo anche perché il regista australiano Justin Kurzel si è esposto, oltre al rischio sopra citato, alla competizione fantasmagorica con le versioni precedenti di Orson Welles, Akira Kurosawa e Roman Polanski…robetta, insomma. In questi casi, però, bisognerebbe prescindere da facili paragoni, dai quali difficilmente si esce vincenti, per interrogarsi sul fattore fondamentale: questa nuova versione ha aggiunto qualcosa di inedito e necessario alle opere precedenti?
Kurzel, nell’affrontare il masochistico progetto, ha deciso di schierare due attaccanti di sfondamento: Michael Fassbender e Marion Cotillard. Una coppia di grande resa cinematografica, in cui una Lady Macbeth oltremodo intensa e dotata di una classe senza tempo alimenta costantemente il fuoco del tormento del proprio carismatico compagno, spingendolo inesorabilmente verso il baratro della fine. Buone anche alcune scelte registiche tese a sottolineare il senso di ogni battaglia (rallenty sapientemente orchestrati per mettere in evidenza la posizione e le emozioni di assassini e sconfitti) e l’impatto che ogni assassinio ha sull’animo dell’impavido guerriero che, spinto dalla ceca ambizione e da una moglie manipolatrice, fa delle sue stesse mire incontrollate il motivo della propria disfatta totale.
Una colonna sonora in cui domina il fascino sinistro degli archi aiuta, pur con qualche eccesso espressivo, a conferire alla pellicola un tono cupo e profetico, in cui le battaglie ed i loro tragici esiti sono in secondo piano rispetto ai sentimenti umani che li hanno provocati, veri protagonisti del dramma, evidenziati da dialoghi sussurrati, rivolti prima di tutto al proprio animo alla deriva. Secondo Fassbender, come dichiarato in conferenza stampa, “Macbeth è un dramma sulla perdita: la perdita di un figlio, del legame tra moglie e marito ed infine della salute mentale”, un senso di vuoto e solitudine che spinge i protagonisti a compiere azioni irrazionali e senza ritorno. Le profezie, care alla letteratura shakespeariana, rappresentano le angosce che tormentano l’animo umano, in costante lotta con le proprie emozioni: le apparizioni spettrali delle streghe sono qui gestite in maniera impeccabile, a cavallo tra reali presenze ed incarnazione dei desideri reconditi del protagonista, reo di avere voluto troppo ed eccessivamente debole per non cedere al costante ricatto di una donna che lo sfida ad essere “uomo”.
Tornando alla domanda principale, tuttavia, Macbeth è un’opera accurata ed imponente ma la sua ragion d’essere non va molto al di là delle prestazioni eccellenti degli interpreti, vera forza motrice di questo quarto remake, destinato altresì ad un rapido dimenticatoio.