Cannes 2015: viaggio attraverso le scelte della giuria
Il 68esimo Festival di Cannes è ufficialmente giunto al termine e, fra delusioni e polemiche per i premi (non) assegnati, è comunque tempo di conoscere più da vicino i vincitori, alla ricerca delle motivazioni alla base dell’assegnazione dei relativi riconoscimenti.
Cominciamo dalla vetta, e quindi dalla più che discussa Palma d’Oro a Dheepan del colosso francese Jacques Audiard; facili insinuazioni sulla nazionalità del film a parte, qui il disappunto nasce più che altro dalla presenza in competizione di titoli che sembravano essere inequivocabilmente più meritevoli del top award, ma resta il fatto che la pellicola è di indubbio valore, soprattutto per l’approccio utilizzato alla tematica dell’integrazione sociale, affrontata dal punto di vista dell’influenza reciproca tra uomo e ambiente.
Liberamente ispirato alle Lettere persiane di Montesquieu, Dheepan narra le vicissitudini di un combattente dell’esercito delle Tigri, in lotta per la libertà dei Tamil; quando la Guerra Civile in Sri Lanka sta per raggiungere la fine e la disfatta si avvicina, Dheepan decide di fuggire verso la Francia, portando con sé una donna e una bambina al fine di fingersi una famiglia e aumentare così le probabilità di un’agevole integrazione nel nuovo ambiente. L’espediente sembra inizialmente funzionare ma, ben presto, l’uomo si renderà conto che anche nel nuovo Paese che lo ha accolto è in atto un conflitto , seppur ben più subdolo e silenzioso, una guerra in grado di far risorgere il suo mai sopito animo da guerriero per proteggere quella che ormai desidera veramente essere la sua nuova famiglia.
In un tale momento storico non è difficile capire il perché la Giuria di Cannes 2015, presieduta dai fratelli Coen, abbia deciso di premiare su tutti questo film: il modo in cui la difficile situazione delle bandelieu parigine viene narrata, dal punto di vista dell’occhio esterno di un’altra popolazione, offre uno sguardo critico ma intelligentemente ironico su un’importante emergenza sociale, mantenendo tuttavia il focus su una storia d’amore e di speranza dal buon potenziale di intrattenimento. Ciò che però sembra non far brillare la pellicola nell’Olimpo dei migliori lavori di Audiard è l’assenza di mordente, che rende il film a tratti forzato e non del tutto convincente.
Passiamo a The Lobster, del regista greco Yorgos Lanthimos, premio della Giuria per quest’edizione; l’acutissima pellicola di ispirazione fantascientifica era sembrata, nei primi giorni del Festival, una delle più papabili per la riscossione della Palma; poi, forse complici i tanti (bei) film che l’hanno succeduta, il suo valore è passato un po’ in secondo piano, portando i pronostici su altri titoli favoriti (che comunque non hanno vinto).
In un prossimo futuro distopico essere single diviene reato: superato il tempo limite, si viene trasportati in un albergo nel quale i malcapitati hanno 45 giorni di tempo per trovare la propria anima gemella, pena la trasformazione nella forma di un animale a loro scelta. Il protagonista, dopo aver consumato invano la sua permanenza all’albergo, troverà invece l’amore in mezzo ai ribelli, un gruppo fuggito nel bosco adiacente per evitare di essere sottoposto alla singolare punizione.
The Lobster rappresenta una metafora di rara acutezza di quello che la società di oggi, che porta inesorabilmente a rimandare la costruzione di una famiglia, ci impone: arrivati ad una certa età, trovare un compagno/a diviene un’esigenza impellente, sulla quale incombe, oltre alle pesanti convenzioni sociali, un altrettanto pressante orologio biologico. La conseguenza è una pianificazione asettica dell’accoppiamento, fatta di social network, programmi televisivi e incontri combinati, ben lontani dalla magica immediatezza del colpo di fulmine. Riconoscimento più che meritato.
Il premio per la miglior regia è invece andato al poetico ed evocativo The Assassin, del cinese Hou-Hsiao Hsien, opera che ha letteralmente fatto balzare dalla poltrona per l’entusiasmo gli amanti del genere wuxia (qui genialmente rivoluzionato) ma che – va detto – non è un film per tutti. Un ritmo cadenzato, al limite dell’estenuante, impone allo spettatore una scelta drastica: lasciarsi coinvolgere ed incantare da un linguaggio estraneo ai canoni del cinema più convenzionale, o addormentarsi inesorabilmente. Fortunatamente la trama c’è, ed è anche piuttosto attraente: siamo nella Cina del IX secolo. Una bellissima e letale ragazzina, Nie Yinniang, viene sottratta in tenera età ai genitori per essere addestrata a diventare un’assassina. Dopo aver fallito una missione per aver esposto il fianco ad un’inappropriata pietas umana, la giovane viene rimandata nella terra natale, al fine di ritemprarsi con una missione che non ammette sentimentalismi: uccidere il cugino, suo ex promesso sposo e ancora in grado di farle battere il cuore. Un cinema capace di ipnotizzare quello di Hou-Hsiao Hsien, fatto di lenti movimenti di camera dal grande impatto pittorico, sostenuto da un sonoro in cui dominano i suoni di una natura sublime e generosa, in pieno contrasto con i delitti ai quali assistiamo. Il risultato è un esperimento ambizioso, che fosse solo per la sua audacia, probabilmente andava premiato. Noi ci fidiamo.
Il sorprendente film d’esordio Son of Saul, invece, si è aggiudicato l’enigmatico Grand Prix (cosa lo differenzi dal premio della Giuria resta praticamente un mistero). Già premio della critica internazionale, l’opera prima dell’ungherese László Nemes offre uno sguardo soffocante sulla realtà dei campi di concentramento, affrontata dal solo punto di vista del protagonista, un ebreo ungherese che lavora ad Auschwitz come addetto allo svolgimento dell’orrore dei forni: il suo compito è accompagnare ed assistere le vittime nelle camere a gas, per poi ripulire le stanza dalle ceneri della mostruosa carneficina. Un giorno, l’uomo riconosce tra i cadaveri il figlio: l’indeclinabile obiettivo diviene allora sottrarre il corpo per offrirgli, dopo la preghiera funebre, una degna sepoltura. In Son of Saul la profonda umiliazione dell’essere umano, privato della dignità pure nella morte, viene a galla in tutta la sua ferocia. Ciò che succede all’esterno della vicenda privata di Saul lo spettatore può solo intuirlo ma, nonostante questo, attraverso l’avvilimento di quest’uomo, tutto l’orrore dell’olocausto investe con atroce crudezza. Riconoscimento doveroso.
Il premio per la miglior sceneggiatura resta, a nostro avviso, il meno condivisibile: se è vero che la prima parte di Chronic, del giovane messicano Michel Franco, presenta delle premesse da film d’autore, il suo punto di forza non sono certo i dialoghi, superficiali e ridotti al minimo indispensabile, affidati prettamente all’unico elemento per cui valga la pena di vedere il film: Tim Roth. La storia è quella di un infermiere adibito alla cura di malati terminali, con i quali riesce ad instaurare rapporti ben più profondi rispetto a quelli familiari. Da qui in poi, la pellicola è uno scivolare maldestro verso un finale incompiuto e deludente, come se le idee di Franco si fossero esaurite dopo la prima metà dell’opera. Non ci siamo.
La miglior attrice Rooney Mara, invece, mette tutti d’accordo. Pari merito con Emmanuelle Bercot (ironizziamo: non fosse mai che un francese rimanesse a bocca asciutta) per la sua interpretazione nel tiepido Mon Roi, la giovane attrice americana ha superato brillantemente una prova difficile ed impegnativa, interpretare lo sgomento e l’ardore della nascita di un amore proibito: quello per un’altra donna. Carol, titolare della Queer Palm di quest’anno, avrebbe meritato molto di più: lo statunitense Todd Haynes è stato in grado di orchestrare i sentimenti delle protagoniste con tocco magico e suggestivo, ricostruendo attorno alle vicende di queste due magnifiche interpreti (co-protagonista è la divina Cate Blanchett) le sensazioni della nascita di un amore, fatto dell’alternarsi di ritrosia e desiderio impetuoso. Capolavoro. Senza voler nulla togliere alla bravura della protagonista del film di Maïwenn, il suo ruolo di donna prigioniera in un legame crudele e opprimente non sembra esserle calzato tanto a pennello da meritare un premio. Soprattutto a pari merito con Rooney Mara. Perplessità.
“Last but not least”, eccoci giunti all’ultimo incoronato di quest’edizione, il nuovamente francese Vincent Lindon, premiato per la sua interpretazione in La Loi du Marché (The Measure of a Man) dell’altrettanto francese Stéphane Brizé. Nulla da dire in questo caso: lo straordinario attore ha vestito superbamente i panni di un uomo rimasto disoccupato e costretto quindi a misurarsi con le dure leggi del mercato, accettando un lavoro che lo pone di fronte ad un pesante dilemma morale. Se l’argomento del film non sarà il massimo dell’originalità, la messa in scena è invece ottima, con un fulcro rappresentato da un Lindon costantemente sollecitato a cedere ma sempre profondamente nella parte. Ben fatto.
Come si suol dire, “è andata come è andata” e il sipario è ormai calato su quest’ edizione della più glamorous delle kermesse cinematografiche, che ci dà appuntamento all’anno prossimo nella consapevolezza che la bellezza del Festival di Cannes risiede più nei film che nelle premiazioni…facciamocene una ragione!