Fuori dal Coro: recensione
Ho imparato che nella vita due cose sono sicure: la morte e di quanto a volte, pur non volendo, è necessario tornare in Sicilia. Incastonata tra i dialoghi di Fuori dal Coro, l’opera prima di Sergio Misuraca, questa affermazione rimbomba con tutta la sua folkloristica rivelazione, sottolineando la ragione di una pellicola fatta non solo di fantasia e coraggio, bensì di storia personale: profilo umano di un viaggio intrapreso da ragazzo, appigliato a un sogno fatto di fatica, sacrifici, umiltà e tanta voglia di farcela.
Fuori dal Coro, al cinema dal 4 giugno 2015, parte dalla commedia per poi dileguarsi tra il noir e il genere pulp, in un intreccio tanto anomalo quanto interessante che, se da un lato non delinea per filo e per segno la personalità di Misuraca, per lo meno porta sul grande schermo un’opera originale e autenticamente “fuori dal coro”.
Tre anime e tre atti, eccoli scanditi uno per uno.
La macchina da presa ondeggia sulla calma turchina di Terrasini (paese d’origine del regista), bussa alla saracinesca degli artigiani col suono atavico di un dialetto più che mai vivo e caratteristico e si posa sulla vita libera e senza regole del giovane neolaureato Dario (Dario Raimondi): icona di una generazione di studenti senza prospettiva di lavoro, speranzoso ma allo stesso tempo ingenua preda di un sistema corrotto, in cui la promessa è alta, ma i rischi di più! Accanto a lui l’amico Nicola (Alessio Barone), che invece se la spassa tra giri di erba e passeggiate in motorino, convinto che in Sicilia spacciare sia un lavoro come tanti altri.
Fin qui tutto procede con una gioia alla Ficarra e Picone, corredata cioè da luminosità e savoir faire tipici della commedia. Ma lo scenario si accinge a cambiare con l’entrata in scena del Professore, un maneggione locale che lo incarica di recarsi a Roma per consegnare dei documenti importanti e dal contenuto misterioso – che Dario nasconderà in auto con l’aiuto di Nicola, il quale ha una pattezzeria –. L’incrinarsi della situazione è una scivolata parzialmente lenta, come il ritmo incalzante del Walzer di Shostakovich; ci nega la bellezza artistica della Capitale, introducendoci adagio nei tetri night club animati da gente poco raccomandabile e tra questi il misterioso Tony Scrima. Abbigliato con un vestito gessato, da mafioso doc, Alessandro Schiavo attira il pubblico con la sua ipnotica interpretazione e funge da trampolino di lancio per il secondo atto della pellicola: quello noir.
Personaggi di un certo fascino cinematografico si combattono sulla scena, dallo slavo Pancev (interpretato da Ivan Franek) alla scaltra Giovanna (una meravigliosa Aurora Quattrocchi), da Salvo Piparo (Pidocchio) ad Antonello Puglisi (Palminteri) e poi Emanuela Mulè (Giovanna), Consuelo Lupo (Francesca), Sergio Vespertino (Rosario) e Marta Richeldi (Silvia). Citazioni a De Niro e Scorsese, a Quentin Tarantino e a Scareface di Brian De Palma si srotolano palesemente per poi confluire nel terzo atto, in cui al repentino ritorno in Sicilia segue un ritorno alla commedia, ma che si appresta a divenir nera per poi sfociare nel pulp.
Tony Scrima gestisce con freddezza i fili di un teatrino di vendette, cercando fino alla fine di aiutare il nipote con escamotage attraverso i quali si afferma il suo passato non proprio da attore e cantante, quanto da esperto malavitoso. La rima finale tra carneficina e religiosità è sottile e scivola sotto il naso come una conseguenza normale, eppure disarmante.
Una colonna sonora (realizzata da Lello Analfino) viva, isolana, giovane e capace di spiegare le ali verso tutto ciò che resta da dire, verso tutto il mondo di stereotipi e parole chiuse dentro consacra Misuraca come una felice promessa e lascia allo spettatore il retrogusto dolce del coraggio e dell’innovazione. Da vedere!