Nove settimane e mezzo: recensione
Nove settimane e mezzo (1986), per la regia di Adrian Lyne (Flashdance, Attrazione Fatale) è una pellicola che ha fatto scuola; dopo il recente successo mondiale prima del best seller e poi del film Cinquanta Sfumature di Grigio, è sorprendente (o, a seconda dei punti di vista, deprimente) notare come una storia molto simile – a partire dal cognome del protagonista maschile – sia stata raccontata quasi trent’anni fa, portando in scena con un delicato tocco erotico, sostenuto in gran parte dall’intensità degli sguardi dei protagonisti, la storia di un’attrazione fortissima, vissuta al di là delle regole del sentimento, e destinata per questo motivo a bruciare ed estinguersi con la stessa voracità di una fiamma.
New York. Elizabeth McGraw (un’incantevole Kim Basinger) è una mercante d’arte, reduce da un recente divorzio; mentre fa spese in una rosticceria di Chinatown, viene approcciata da un affascinante e sfacciato arbitraggista di Wall Street, John Gray (l’allora super sexy Mickey Rourke), che con uno sguardo e qualche battuta, non esita ad esprimere la sua attrazione per lei per poi abbandonare la bottega all’improvviso, lasciando la donna confusa e frastornata. Qualche giorno dopo i due si rincontrano in un mercatino e da quel momento in poi, senza sapere nulla l’uno dell’altra, cominciano una relazione passionale basata sostanzialmente su un viaggio, condotto da John, all’insegna di varie esperienze erotiche che hanno l’esplicito obiettivo primario di appagare i capricci e le sottili perversioni dell’uomo. In cambio, John offre ad Elizabeth lusso e protezione, in un gioco in cui la parola “amore” fatica a trovare una collocazione convenzionale. La trasgressione diviene il leitmotiv della coppia, in un mix fatto di sesso, esibizionismo e gusto per il proibito.
Inizialmente il tacito accordo incuriosisce e diverte la donna che, col passare dei giorni, tuttavia, non può fare a meno di maturare sentimenti più profondi che la portano a non accettare i segreti ed i torbidi istinti di John, la cui parola d’ordine sembra essere controllo di sé e della relazione. Sarà l’inizio del rapido declino del legame, dopo nove settimane e mezzo di passione e tante, troppe cose non dette.
Nove settimane e mezzo: un cult nel bene e nel male
Analizzare Nove settimane e mezzo nel 2015 non è facile, perché le lacune che già all’epoca avevano fatto storcere il naso alla critica non possono che essere percepite con più enfasi. Ma quando un film diventa un cult, gli va riconosciuto qualche merito e, dal momento che lo spogliarello sexy ed impacciato di Kim Basinger sulle note di You can leave your hat on del grande Joe Cocker fa indiscutibilmente parte della storia del cinema, Nove settimane e mezzo non fa eccezione. La magica atmosfera di New York, i personaggi eccentrici e pittoreschi che emergono dalla folla, i giochi di luce e ombre, esprimono un forte senso di vitalità e con lo stesso vigore si rispecchiano nella carnalità del rapporto tra Elizabeth e John, in un approccio alla vita in cui le sensazioni prendono il timone, lasciando al cuore il duro compito di fare i conti con i propri limiti ed esigenze. L’enorme punto debole del film resta una sceneggiatura debole e scarna, che calca la mano su facili metafore e situazioni molto scontate trascurando l’approfondimento dei sentimenti dei protagonisti, le cui azioni restano l’unica chiave attraverso cui poter interpretare la pellicola.
Grande nota di merito, invece, all’incantevole colonna sonora, alla quale viene affidato con successo il compito di compensare lo spazio del non detto creando un’atmosfera intensa e vibrante, sulle note di brani indimenticabili come (oltre al già citato brano di Joe Cocker) Slave to Love di Bryan Ferry o This City Never Sleeps degli Eurythmics.