Straight outta Compton: recensione
Prima del 1988, Compton era soltanto uno dei tanti quartieri malfamati a sud di Los Angeles; soltanto in quell’anno, infatti, il secondo album degli N.W.A. (che consacrò il loro potenziale artistico) fece in modo che quello stesso quartiere che gli aveva insegnato la cattiveria e la violenza, si ritrovasse sulla bocca di tutti per qualcosa che esulava dalla solita solfa e lo ergeva a un tipo di fama mai conosciuta prima: quella del mondo della musica. “Straight outta Compton” non solo era il nome dell’album, ma anche il titolo della prima traccia in esso contenuta. Sono dovuti trascorrere ben 27 anni per far riutilizzare la stessa combinazione di parole a F.Gary Gray (The italian job, Giustizia privata) per il titolo del suo nuovo film.
Straight outta Compton – un film dove la musica è protagonista
La vicenda inizia due anni prima dell’uscita di quell’album, nel 1986 quelli che passeranno alla storia come i padri del gangsta rap statunitense sognavano un successo che non avrebbero mai pensato di poter avere. Gray non si sofferma sui trascorsi dei componenti della band prima dell’inizio della loro collaborazione. La complicità tra loro viene svelata sin dall’inizio della pellicola come anche i loro nomi, destinati a diventare leggenda: Eazy-E (Jason Mitchell), Ice Cube (O’Shea Jackson Jr), Dr. Dre (Corey Hawkins), Mc Ren (Aldis Hodge) e DJ Yella (Neil Brown Jr) erano solo cinque tra le centinaia di ragazzi dotati di mani che si trovavano a loro agio sia chiuse a pugno fendendo l’aria dirette alla mascella, sia nei piccoli movimenti richiesti per usare perfettamente una costosa console da DJ.
Ed ecco che ci ritroviamo a scoprirli in una dimensione lontana da quella sovrumana con la quale siamo soliti disegnare i lineamenti delle personalità influenti nel mondo dello spettacolo e della musica: se Ice Cube scriveva i testi durante il tragitto per tornare a casa sullo scuolabus, Dr. Dre fu cacciato di casa da sua madre che si lamentava per la sua nullafacenza. Avevano dalla loro parte tanta voglia di riscatto, e uno sprezzo della paura fuori dal normale che hanno saputo utilizzare al meglio, anche come trovata pubblicitaria (si pensi alla lettera ricevuta dall’ FBI riguardo al divieto di suonare il famoso pezzo Fuck tha police). Ciò che trapela dal film di Gray, è un ingiustificato accanimento delle forze dell’ordine nei confronti della comunità afro che è ancora di attualissimo interesse negli Stati Uniti. L’unico bianco dedito a proteggere i cinque ragazzi (e che per primo li definisce come artisti) è il loro manager Jerry Heller, che costituisce anche una piacevole sorpresa all’interno del cast: Paul Giamatti (Sideways – A spasso con Jack).
Cimentandosi a raccontare storie di questo tipo, non è difficile capire che il lavoro dietro una sceneggiatura è relativamente minore del solito. Quel che aumenta esponenzialmente, è il rischio di incappare in critiche feroci da parte di stampa e pubblico ed è esattamente ciò che non è successo a questo film: è uscito negli USA lo scorso 14 agosto guadagnando la strabiliante cifra di 106 milioni e 200 mila dollari a fronte di un budget di soli 28 milioni. Gray ha dato vita esattamente al buon prodotto cinematografico che coinvolge le nuove generazioni senza dimenticare di inserirvi l’insegnamento buonista di turno secondo il quale non basta chiamarsi “Fratelli” per poter riporre fiducia in una persona.
Altro lato positivo del genere di film, è che non ci si deve preoccupare di eventuali spoiler: tutti sanno come va a finire, la tecnica vale più della trama. Un’altra arma a doppio taglio che il regista ha saputo mantenere dal lato giusto, evitando di ferirsi.