James Bond – identikit dell’Agente 007 dagli anni ’60 a oggi

James Bond è un superuomo senza marchio Marvel, un personaggio tendenzialmente positivo almeno di nascita, ma ha delle pagine che non dissimulano bene la sua bontà d’animo. Siamo stanchi dei buoni a tutti i costi. Lui non è Ulisse, non è Enea. È umano, può morire, invecchia, sbaglia: trovò sconfitta solo sul corpo delle sue donne che non furono mai sue e nel gioco d’azzardo.

Bisogna però distinguere il personaggio letterario e quello filmico. James Bond nasce dalla penna di Ian Fleming con il primo romanzo in uscita nel 1953. Il cinema britannico negli anni ’60 è il contesto in cui si giudicò necessario dover partorire un personaggio internazionale, come poi si ritrovò ad essere. Erano i tempi del Free Cinema, indipendente, improntato sul quotidiano. E come Emile Zola deportò l’attenzione dei lettori nelle fogne, nel buio di una Parigi corrosa e fetida, il cinema inglese sostenne una lex molto simile. James Bond andò totalmente controcorrente.
Egli come soggetto filmico non ha memoria, non ha futuro e non si conosce il suo passato. Nel romanzo di Fleming il suo personaggio ha un respiro più sostenuto, con una fabula e un intreccio. Nelle pellicole c’è un susseguirsi di scene rievocative, la sua vita è una catena di montaggio. Non può scegliere realmente, non può ritrarsi dal lavoro, non ha prospettive o alternative, non sconfina nemmeno immaginando un’altra vita possibile. Egli arroga a sè il diritto di decidere se una persona meriti più o meno di vivere.

James Bond nel corso delle 23 pellicole prosegue per stadi: Cinismo, Indifferenza, Ironia e Risorgimento. Di cui corrispondono i quattro interpreti principali: Sean Connery, Roger Moore, Pierce Brosnan e Daniel Craig.

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In Agente 007 – Licenza di uccidere (Dr. No) del 1962, Connery fa suo il teorema “Facciamoci una ragione della morte, dopo di che tutto è possibile”: non risente di alcuna attrattiva reale e mostra al mondo per la prima volta come doveva essere interpretato un personaggio di quel calibro. Chiaramente non è esistita prima di lui una spia del genere ed ogni analogia è solo un’opaca imitazione: una persona capace di guidare una macchina in corsa, con nemici all’occorrenza alle calcagna, essere procace e lascivo con una donna, sedurla con un battito di ciglia, il tutto senza slabbrare minimamente il nodo della sua cravatta.
Certo è che il sesso non fa sentire la sua mancanza, si può dire senza esagerare che Bond ha sempre scelto con un certo talento le sue amanti o partner; mata hari o talvolta, paradossalmente, donne senza grande incisività, morse dalla tarantola Vodka Martini agitato non mescolato, annebbiate dalle sempiterne sigarette. La cosa interessante è che riesce ad essere misurato anche nei vizi, taciturno con esuberanza.

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Singolare è il ruolo storico che pervade i film: si trova più di una volta a scontrarsi con il KGB e da buon sovversivo bolscevico ribalta e lascia declinare l’immoralità della Russia, e non solo, pur rimanendo centrale l’appartenenza anglofona e alla sua matrigna, l’ MI6. Pensava probabilmente che fosse impossibile migliorare il mondo, ma che si potesse comunque migliorare le vite delle persone che entrano in contatto con noi.
Ed è forse dato dalla sua stoffa di piombo che, rasentando la staticità poco zelante quasi immutabile, si sta urlando ad un cambiamento netto proponendo di rendelo tutto al femminile, omossessuale o anche di colore. Non vi saprei dire se potrebbe funzionare una delle varianti, ma certo è che quando Daniel Craig fu scelto per interpretarlo gli entusiasmi erano pressochè sottoterra. E si sono ricreduti in tantissimi, non tutti probabilmente.

1977 --- Actor Roger Moore and actress Barbara Bach on the set of "The Spy Who Love Me". --- Image by © Sunset Boulevard/Corbis

Bond è un’imperativo che riesce sempre a riempire le platee, una fortuna imperiale che deve parte del suo fascino alle donne. La bond girl più attraente di tutte è Barbara Bach che interpreta Anya Amasova (Agente Tripla X) in La spia che mi amava (1977) con Roger Moore che sembra quasi un figurante. Quel ruolo è fatto apposta per rubare la scena, un prestito visivo che si concede con grande facilità. Non è un peccato se durante quei vividi secondi intervallati da disillusione e ironia si rivolti lo sguardo sulle curve magnetiche o il suo aspetto non proprio ordinario. Sottrae l’attenzione e il motivo di tale apprezzamento non deve essere necessariamente motivo di sessismi o misoginie, considerato che lo stesso Craig ha alzato la voce screditando quel ruolo da dandy politicamente scorretto. Le Bond girl rappresentavano una versione più moderna e disinvolta di Messalina con l’arguzia di Lady Macbeth.

La musica è un accessorio determinante nella saga: accompagna, rinnova, invita e non è mai uguale a sé stessa anche se il motivo tende ad assomigliarsi. Ad esempio nel decimo Bond il musicista Marvin Hamlish unisce il tema originale con You Should be dancing dei Bee Gees (siamo nel ’77 e tutto passava dalla disco story).
Tornando al nostro James, la sua vita si può ripercorrere sintomaticamente attraverso la curvatura de Lo Straniero di Camus, fluttuante dall’apatia all’anaffettività: si può considerare anapatico. Ma non è dato dal fatto che non gli interessasse ciò che gli accadeva dentro o fuori oppure non che riuscisse a creare legami che si potraessero. Era una deformazione caratteriale e professionale, un distacco naturale che gli conferiva il coraggio di osare e rischiare tutto ciò che aveva, ovvero la sua libertà, allo stesso tempo ciò gli impediva di lasciarsi attrarre dal bene, dall’innamorarsi e tergiversava così attraverso scontri di seduzioni che avevano la durata di un amplesso.
Ne Il domani non muore mai, diciottesimo film della saga di 007 e secondo con Pierce Brosnan, tutto ci appare grandioso e futuristico, con battute e rovesci molto spinti e un’impeccabile ars amatoria. Ma lui si mostra come un mosaico che non è mai stato colorato dentro ai margini, la costruzione è partita dall’esterno per poi farsi strada lentamente tra le righe dell’anima dell’agente che, forse molto tardi, scopre di avere.
skyfall-Nel corso degli anni, soprattutto durante gli ultimi, si assiste però ad una sorta di umanizzazione. Di colpo esistono i sentimenti, il sacrificio, la morte è davvero una bestia temibile, e non è un’aspetto da sottovalutare poichè sarà il cambio di attore ad imporre la rottura degli argini dentro ai quali Bond non aveva mai provato a scassinare il lucchetto. Il pubblico non potè che apprezzare, senza clamore o disonestà verso il ruolo originario, tant’è che Skyfall (2012) è ad oggi il film con più incassi della Spy saga. Bond precipita, in tutti i sensi, si lascia andare totalmente, cercandosi comunque di aggrappare a quel poco che gli restava: le sue stanze erano crollate, le pareti troppo pesanti anche solo da guardare. Daniel Craig si reincarna in lui e calza le sue vesti in modo totalmente disatteso.

Il 5 novembre uscirà il ventiquattresimo film della serie e vede per la quarta volta protagonista Daniel Craig, che con 007 Spectre saluterà il mondo della spy stories, o magari il suo addio si rivelerà un’imprecisa voce di corridoio, più per far clamore che per altro.
Eppure questo suo abbandono mi ha fatto pensare molto a come forse l’attore che l’ha interpretato meglio e anche quello che lo odi di più. La sua ascesa è proporzionale al mondo contemporaneo: i veleni sono più lenti, le bibite più amare, le droghe più potenti, le idee più insane, i pensieri più complessi, i sentimenti più forti.