Pier Paolo Pasolini: autofinzione e autoritratto in 4 eroiche pellicole
Sono passati quarantanni eppure non è mai stato così vicino a noi, la sua assenza è forte ma non riesce ad essere particolarmente marcata per un semplice motivo: le sue pellicole non hanno mai smesso di essere vere, hanno una valenza considerevole e non sembra che il loro tramonto accenni a sopraggiungere. Non a caso ho scelto di percorrere una via scivolosa. Come le sue strade, cogliendo fotogrammi qui e la di film e documentari non tra i più celebri ma indegni di passare inosservati.
Pier Paolo Pasolini – storia di un intellettuale corsaro
Noi siamo in un sogno dentro al sogno.
Totò qui personifica Iago, della ben nota tragedia shakespeariana Otello. Il fotogramma in questione fa parte di un episodio Che cosa sono le nuvole? della pellicola in sei atti Capriccio all’italiana (1968).
Si assiste alle vicissitudini di vere marionette su un palco, con tanto di fili e burattinaio al di sopra di tutto. Ma la cosa che salta all’occhio è la coscienza che sviluppa ogni attore: essi interagiscono tra di loro usurpando il ruolo affidatogli, andando ben oltre l’interpretazione, criticando le gesta e le decisioni aride e vendicative di Iago. Diventano in un lampo consci degli inganni, degli errori: come un sogno lucido perenne, in combutta tra sonno e veglia. Certo, una versione bislacca per quanto questo Otello si destreggi sulla scena in modo impacciato e dai toni ciociari. Si scontrano con il pubblico lui e Iago, che prende la forma della folla rumorosa e moralista che si legge nelle tragedie del drammaturgo inglese.
Pasolini ci avvicina a sè, come in un moto di rivoluzione, spronando il pubblico ad interagire con i suoi fili, tirati da un burattinaio immaginario: Dio? Il consumismo? Il conformismo? Il disamore? Le nostre mancanze? Una pellicola dispersiva, grottesca, puramente sovversiva. Un dramma nel dramma. Se esistesse una figura mitologica metà uomo e metà marionetta Pasolini è riuscito a ridestarla. I personaggi nascono due volte: sulla scena e al di fuori di essa, quando conoscono il mondo che c’è fuori le quinte e i tendaggi del palco.
Sintomatica la locandina che viene mostrata all’ingresso del teatro: essa altro non è che un quadro di Velazquez, Las Meninas. Opera legata a doppio filo con la trama poiché essa vive di due illusioni differenti. L’osservatore del quadro è il vero protagonista dell’opera e non chi ci posa dentro. La seconda è che il pittore è coinvolto nel quadro auto riproducendosi sulla sinistra, all’oscuro mentre dipinge.
Lui dipinge nel dipinto la sua stessa opera. Uno specchio che non riproduce ciò che accade fuori ma ciò che gli accade, una raffigurazione infinita e invisibile se non a chi partecipa dall’interno alla sua rappresentazione. Il soggetto e l’oggetto coincidono. Il pubblico, noi che siamo esterni non riusciamo ad essere partecipi o complici, il silenzio viene imposto dall’estraneità contemplativa che la pellicola ci suggerisce, una segretezza necessaria. Il prezzo del silenzio è il raggiungimento della nostra verità, che può essere colta solo tacendola.
Orson Welles è l’alter ego di Pasolini, un po’ come Guido Anselmi fu per Fellini. Ro.Go.Pa.G (1963) è un film diviso in quattro episodi, diretti ognuno da Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. Il corto in questione si intitola La Ricotta. Viene mostrato il set, il cinema in costruzione o in disfacimento, mentre viene realizzata la scena madre della passione di Cristo.
Tutti i personaggi biblici si lasciano andare al di fuori delle riprese a bestemmie, volgarità e risate quasi blasfeme. Il set è ostile a ciò che sta andando a rappresentare, un volgo arido e surreale. La passione non ha nulla della liturgia d’origine: è sconsacrata, derisa, demistificata. Ogni emozione è estinta. Pasolini comincia a forgiare il suo testamento, il suo empirismo eretico. Le periferie di Roma sono la versione vituperata di Gerusalemme.
Il popolano Stracci (Mario Cipriani) che interpreta il buon ladrone, è un affamato e un arrendevole. La sua morte fa rinsavire tutti: la produzione, il regista, gli attori. La scena finale risolve e si ricongiunge con ciò che sarebbe poi stato il destino del ladrone sulla croce. Stracci, ingordo e famelico, muore di indigestione da ultima cena, trangugia senza esserne abituato buona parte del banchetto preparato per la scena.
Sono presenti anche qui dei palesi richiami a due dipinti differenti: La deposizione, analogamente del Pontormo e di Rosso Fiorentino. Esse si incentrano su una scena in particolare, quella in cui il corpo del Cristo scivola dalla croce. Una scena paradigma che non è rintracciabile in nessuna delle pagine del Vangelo. Nella versione del Pontormo, ancora una volta, l’artista è presente nel quadro. Nel Rosso Fiorentino l’artista si ritrae in una sorta di autoritratto negato poichè nasconde il volto tra le mani.
C’è un netto e palpabile contrasto tra spiritualità e profanità, tra scrittura e pittura, tra colori e il bianco e nero, alternati nelle sequenze del film. L’Italia che ne fuoriesce è distrutta, nei suoi falsi progressi, nell’acculturamento consumistico, nella torbida illusione di liberarsi dalle sovrastrutture ideologiche e protendere verso una modernità utilitaristica.
Comizi d’amore (1965) è un documentario che ha visto il maestro girare l’Italia per ogni balera e per ogni paesello siculo al fine di porre domande rischiose e quanto mai necessarie per il paese in rivolta contro se stesso, quale era in quegli anni. Gli interrogativi si pongono inizialmente sulla libertà sessuale, un deprecabile auspicio femminile o una condizione assolutamente da impari? Dove si pone il gallismo italiano e quando comincia la defezione femminile?
Eppure i principi che regolano la vita non devono trovarsi in contrasto con nessuna parte di quella stessa vita. Le istituzioni, i fondamenti societari non devono essere accettati perché sono stati inculcati o insegnati ma perché sono stati conquistati, capiti ed apprezzati.
E’ un manifesto così attuale che mi spinge a credere due cose: o l’Italia non ha realmente mai avuto il suo progresso piccolo borghese oppure Pasolini spinse le discussioni secondo direttive così profetiche tanto da risultare credibili ancora oggi. L’Italia ha subito prima l’innalzamento del valore della famiglia, per poi con il divorzio generare la sua desublimazione. Ma esso è stato raggiunto per adattamento o dopo una giusta lotta?
Pasolini interroga persone comuni, gente per strada, al mare ma anche menti aristocratiche quali Oriana Fallaci, Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti, Cesare Musatti, Adele Cambria.
La donna non ha il coraggio di pretendere la parità sessuale poiché ha paura di perdere alcuni dei suoi vantaggi tipicamente borghesi. La sessualità è una prigione che non ha vie di fuga, non ha guardie o feritoie, t’inchioda con l’ardore, che è di tutti; ma esiste anche quell‘elasticità di una credenza conquistata e non subita, che è solo per gli eletti. Diverso atteggiamento è quello di chi si scandalizza, atteggiamento da conformista incerto: Cristo non si è mai scandalizzato. I farisei si.
Pillola conclusiva è Mamma Roma (1962). Una prostituta redenta (Anna Magnani), sciolto ogni legame con il suo pappone-protettore, abbandona ogni postribolo, ripulisce la sua quotidianità e si riappropria del figlio che non è mai riuscito a viversi.
Una pellicola sorprendente, fluida impreziosita dal reale desiderio di amore e riscatto oltraggiati dalle circostanze. Roma città è una presenza forte, ti porta a concepire errori che non oseresti commettere e a comprometterti riconducendoti sulla stessa strada infernale abbandonata poco prima.
Mirabile la presenza degli ulteriori richiami all’arte. La scena iniziale è chiaramente ripresa dal Cenacolo di Da Vinci, pur trovandosi loro ad un banchetto matrimoniale. Invece tra le ultime scene, il figlio Ettore, moribondo, ricorda magistralmente il Cristo morto di Andrea Mantegna, una rievocazione più emozionale che visiva.
Pasolini inserisce se stesso nei suoi ritratti filmici come lascia incuneare l’arte pittorica attraverso i fotogrammi delle pellicole, insomma lui è un’opera d’arte che adatta il suo spirito alle parvenze cinematografiche e lascia che parlino e danzino con lui. Non c’è finzione, non ci sono veri ritratti ma le due cose che si rincorrono incessantemente.
È una forza del passato, riusciva a creare poesia negli angoli più remoti e scomodi, conosceva un dizionario che riusciva ad avverarsi anche all’inferno. Non gli rimase molta vita per morire, ma dopotutto sognò i posteri e quel secolo in rovina e fingere di non vederlo è solo un gesto di cecità mentale.