Possession: recensione del film di Andrzej Zulawski

La recensione di Possession, il delirante capolavoro di Andrzej Zulawski in cui il disagio è palpabile, l’immersione nel dramma è profonda.

L’arte cinematografica è da sempre uno dei migliori veicoli per mostrare sogni, emozioni, pulsioni recondite e paure. Andrè Breton paragonava il meccanismo delle immagini cinematografiche al sonno, in quanto entrambi automatismi psichici puri, al di fuori di ogni preoccupazione razionale di tipo estetico o morale. Tenendo conto consapevolmente o meno della lezione surrealista, Zulawski ci mostra in Possession kafkiane metamorfosi irreali, le immagini che siamo abituati a vedere in base al senso comune si trasformano in immagini che ci trasmettono l’idea di un diverso ordine della realtà.

Berlino est, 1981. Anna (Isabelle Adjani) e Mark (Sam Neil) sono una giovane coppia sposata con un figlio di 6 anni, Bob. La loro vita, apparentemente normale, inizia a sgretolarsi quando Mark, di ritorno da un viaggio d’affari scopre che la moglie ha un amante: una tra le più banali trame resa totalmente sconvolgente dal regista. Zulawski descrive, in un turbinio contorto e disturbante, la disgregazione di una coppia e di una famiglia, partendo dal nucleo primo degli eventi: la disgregazione mentale dell’essere umano.

Possession: il delirante capolavoro di Andrzej Zulawski

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Sin dall’inizio le immagini che vediamo sullo schermo ci colpiscono come uno schiaffo: grigia è l’ambientazione berlinese come l’interiorità dei personaggi, prerogativa prima di un’opera che parla del reale (e del fantastico in questo caso) in senso metaforico. I lavori partoriti da Zulawski sono noti per essere una specie di tumore abnorme, tollerati a malapena in alcuni festival; nel ’96 presentò al Festival di Venezia La Sciamana, film divenuto subito oggetto di scandalo per i contenuti violenti e pornografici in cui veniva trattato un tema caro a Zulawski: l’amour fou, portato all’estremo in Possession. Sarebbe riduttivo classificare in un unico genere Possession, il film va oltre il semplice linguaggio narrativo e Zulawski si serve dell’atmosfera horror per parlare di mostri interiori che i film dell’orrore di rado hanno osato mostrare. Queste creature sono partorite dai più reconditi ed oscuri luoghi della mente attraverso una sorta di visionario psico-dramma. La possessione questa volta non è demoniaca, ma dimostra come il desiderio di possedere l’amato/a ci domini e ci divori e di come esso sveli il nostro lato oscuro.

Il doppio, l’incomunicabilità tra i partner e la paura dell’abbandono: temi che si spiegano in una densità narrativa stupefacente. L’amante stesso di Anna non è altro che un deforme mostro raccapricciante (realizzato da Carlo Rambaldi) partorito da ella stessa: una creatura dall’aspetto così diafano e puro, scissa tra la vita da madre e moglie ed oscure pulsioni folli e deliranti fino all’apocalittico finale. La sceneggiatura, scritta dal regista stesso, è coerentemente vaneggiante, come lo sono i dialoghi enigmatici e spesso urlati. Tutto è sopra le righe, anche la recitazione, molte scene sono girate con la macchina a mano che dona ancor più un carattere visionario tra sonno e veglia a certe sequenze in cui le immagini sembrano di natura ipnagogica. Zulawski attraverso una regia ed una fotografia (Bruno Nuytten) coerentemente opprimente, parla dell’eterna lotta tra il bene ed il male: all’interno di una coppia, di una famiglia, di uno stesso individuo. Dal carattere folle Zulawski rimane pur sempre un’esteta della macchina da presa, qui utilizza come cifra stilistica piani sequenza in movimento.

Superlativa l’interpretazione di Isabelle Adjani (premio per la miglior interpretazione femminile al Festival di Cannes) in grado trasformare il suo delicato volto in un disturbante ed ossesso Urlo di Munch, dilaniata da un tormento interiore nel corpo e nella psiche. Incredibile la sequenza di isteria allo stato puro nella metropolitana. Quando l’attrice si vide sullo schermo disse al regista: Non hai il diritto di piazzare la camera in questo modo, perché così guarda dritto dentro l’anima delle persone.

Proprio per il carattere poliedrico impossibile da catalogare, Possession è stato da sempre attaccato e rifiutato da una grossa fetta della critica cinematografica amante delle rigide classificazioni. Nel 2006, al festival di Venezia, David Lynch lo definì La pellicola più completa degli ultimi 30 anni.

Ci vuole una gran dose di coraggio ed autocoscienza sia per dirigere che per guardare Possession, un’esperienza filmica totale, lacerante e dolorosa che colpisce allo stomaco lo spettatore.
Il disagio è palpabile, l’immersione nel dramma è profonda e rimane anche dopo i titoli di coda.  Ed è questo il segreto di un’inquietudine più radicata di quella scaturita da film horror dozzinali: il delirio è intollerabile nella sua esagerazione visiva ma allo stesso tempo concede allo spettatore più coinvolto (se si è in due ancor meglio) una catarsi che solitamente la nostra parte razionale rifiuta.

[Fonti:  Sex and violence. Percorsi nel cinema estremo, Roberto Curti, Tommaso La Seva; Lindau, 2007]

Regia - 5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4.2
Recitazione - 5
Sonoro - 5
Emozione - 5

4.7