Elysium: recensione del film di Neill Blomkamp
Elysium: nel film di Neill Blomkamp la fantascienza è solo il trampolino di lancio
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John Lennon nel ’70 smantellava le frivole vacuità sociali e consumistiche del tempo per riportare in auge la classe operaia, la vera stirpe lavoratrice, una locomotiva trainata e trainante. Questo pensiero-paradosso si può rileggere, in modo relativo e opaco, tra le righe di Elysium(2013) scritto e diretto dal regista sudafricano Neill Blomkamp. Per quanto la fantascienza sbracci con caparbietà e risolutezza, essa è solo il trampolino di lancio, l’esca della storia che non riesce a far da tramite tra quel mondo anti-utopico, ambientato a Los Angeles (che stupore) nel lontano e indefinito 2154, e la sconfinata miseria del popolo.
Eccoci, ancora una volta il mondo diviso. Il mondo è eliso. Lo sarà sempre. Bene male. Ricchi poveri. Sud nord. Ottone oro. Vita morte. Il sipario si apre e pone i riflettori su un mondo ambivalente in cui i ricchi hanno creato la loro personalissima valle dell’Eden su di una spilla d’acciaio fluttuante, una riproduzione orbitante della nostra beneamata Terra chiamata Elysium, e ai miserevoli e impotenti comuni terrestri tocca il più basso gradino dell’evoluzione.
Matt Damon interpreta Max Da Costa, un operaio che lavora alla Armadyne, compagnia che fornisce armi e sistemi di protezione, con qualche macchiolina sulla fedina penale: trattasi di furtarelli e ruberie, tanto per non dimenticare lo stato fatiscente da vera favelas che circonda e condanna il nostro Mr. Ripley. La sua vita è scandagliata da pochi ricordi vacui, il più vivo dei quali rimanda alla sua infanzia, felice non sarebbe adatto definirla, ma speranzosa si, in cui con gli occhi attaccati al soffitto stellare immagina di poter un giorno appartenere assieme alla sua compagna di sventure, Frey, a quell’empireo per soli eletti. Ma la storia è infida e ciclica. Si ritrova presto a lavorare in una fabbrica dai ritmi indecenti, in condizioni disumane, senza pause, errori o incertezze. Ogni segno di debolezza è un licenziamento assicurato. E a capo di questo organismo impudico e spietato è John Carlyle (William Fichtner), emissario-amministratore che fa da lucida scarpe alla vera mente machiavellica e dominante: Jessica Delacourt (Jodie Foster) elegante carceriera, azzarderei anche cancelliera, dell’impero elitario, una rievocazione merkeliana che non passa inosservata.
Troppe coincidenze in questo continente artificiale chiamato Elysium, in cui le persone dalla Terra si lanciano in disperate spedizioni suicide per raggiungere il paradiso, la pace e la possibilità di cure mediche efficaci, anzi infallibili, capaci di guarire qualsiasi patologia esistente. Ed è verso questa sicurezza che Max vorrà lanciarsi, non tanto per ribaltare il regime o auspicare ad una condizione meno disumanizzante: le sue intenzioni sono egoisticamente apprezzabili, tali da provocare più di una semplice paturnia notturna alla Jessica Merkel galattica.
Un incidente nella fabbrica in cui lavora gli provocherà l’assorbimento di radiazioni, una scarica letale che corrode anche l’anima. Punto nevralgico della pellicola: avrà pochi giorni da vivere e da li in poi andrà incontro ad omicidi, rapimenti e colpi di stato pur di poter raggiungere la stazione celeste e ottenere una nuova e lussureggiante vita, che non aveva mai reputato fino ad allora necessaria e appetibile, se non riadattata ad un uso masturbativo ed onorino.
Ed è lentamente, con una spassionata fluidità, che vedremo l’egoismo dispiegarsi nell’altruismo non forzato ma misurato, con un logoro reinserimento narrativo della figurante femminile, Frey, che deve far curare sua figlia a tutti i costi e che si troverà in un’ellissi deontologica in cui bisogna fare quel che si deve, in quel dato momento, con determinazione e precisione chirurgica, sorvolando sull’impatto asettico che ha la qual cosa agli occhi dello spettatore. E così la pellicola si infrange e si ritrova quasi senza accorgersene a doversi misurare con una tematica dualistica che soffre se non contestualizzata e resa con la giusta dose di verosimiglianza.
È tutto troppo buio, troppo intriso di meccanicismi e realtà stonate e azzardate che sono riconoscibili ma non sviscerate come si dovrebbe; è difficile trovare una vera attrazione per il genere che anche se ha una sua spettacolarità visiva rimane nel suo senso dispersivo, vago, riecheggiando nelle note finali in quell’Armageddon di Michael Bay, che ahimè non ha il sapore dell’omaggio ma del fac-simile. La storia ha momenti alti e tante, troppe note basse. Una di queste è il tarlo insopportabile di dover conciliare l’idea della ricchezza e del lusso con il tono dismesso della musica classica che debba necessariamente rievocarne l’immagine altolocata. Se Bach vedesse questo film e comprendesse che le sue note sono sottese a quel regresso ideologico siamo certi che tornerebbe in vita solo per far comprendere cosa volesse dire non guarire dalla cecità, per poi finire col suonare solo le lancette dell’orologio che ci separano dalla fine, nella miseria del creato.