Buon compleanno Woody Allen: il comico che venne dal freddo cinismo
Portatemi un buffone buffo!
Nessuno potrà essere come Allen. Mettiamocelo in testa.
Non ha grandi paradigmi ma enormi paradossi, ha scelto i suoi colori e li ha buttati su una tela già bistrattata. Non parte mai da zero, si concentra sui suoi personaggi, le loro storie, già in fase di maturazione, già programmati, bisognosi, testardi. I suoi film sono delle semirette, prima che la cinepresa li colga vivono nella nebbia e non li riesci ad assaporare, il passato è un mostro che cela i suoi lamenti.
Woody Allen si impone nel cinema come un enjambement nella sintassi, una frattura, un modo di interagire con l’arte che non divide il tempo e lo spazio, non scinde l’ieri con l’oggi ma ne mostra le pieghe, i tagli feroci.
Ci mostra come siamo distratti, come sprofondiamo, abbiamo una vera e sola interferenza che riusciamo a intercettare ma la esaminiamo in modo errato, sconsolato: lui provoca le sue sconsolazioni, le sotterra e le riesuma, in ogni pellicola, con ogni personaggio.
Nelle sue pellicole sono svariati i rimandi a Bergman, Fellini o ad autori come Kafka e Dostoevskij. C’è poco da fare, Otto e mezzo arriva ovunque, siamo tutti 8 e mezzo. Siamo composti e frazionati in accadimenti ben riusciti e sommessamente disarcionati dalla memoria. Non c’è da sorprendersi se egli è ispirato non da un Fellini qualunque, ma da Guido Anselmi, ipocritico un momento e ipercritico nello stesso istante.
Buon compleanno Woody Allen: il comico che venne dal freddo cinismo
Un Amleto senza teschio, egli incarna un flâneur postmoderno, un vagabondo metropolitano. Il suo linguaggio filmico è in prosimetri, dove si incontrano elegantemente poesia analitica e prosa sarcastica. I poeti decadenti sono tra i più complessi e svariati, tra loro c’è chi perse l’aureola, camminando ridendo pregando. Lui l’acquisì ma era arrugginita dalle sue chimere: ciò lo fece atterrare, rientrare in se stesso, essiccare petalo per petalo.
Ha un corpo grottesco nel senso che gli dava Bachtin, conteso tra la vita e la morte, lo squilibrio e l’ipocondria, l’amore e le puttane.
Si ispira e lascia fluire con ottemperanza e fierezza le filosofie più controverse, dall’idealismo, razionalismo all’epistemologia più recente. Ma il filosofo con il quale strinse un sodalizio filmico, per così dire, è Heiddeger. H. criticava l’esistenza inautentica, quella intorpidita, dormiente, l’illusione che ci gioca la coscienza, la deiezione dello stare al mondo, l’essere quotidiano. E struttura questa nefandezza in tre declinazioni: chiacchiera, curiosità ed equivoco. Allen è così suddiviso. O almeno buona parte delle sue pellicole hanno come filosofia preponderante l’inautenticità dell’esistenza. In essa il nostro vissuto, uniformato razionalmente in passato presente e futuro, è correlato alla riuscita o alla disfatta dei nostri progetti, delle speranze in modo da dilazionare tutto il senso affettivo ed emozionale dello stare al mondo sacrificato sull’altare dell’effettualità, sul ricavato, sul nesso fenomenico.
La chiacchiera, nasce da un’indagine preindividuale, in cui ciò che si mostra, l’enunciato filmico si basa sulla non esperienza, o meglio su ciò che accade generalmente, ciò che si dice, ma non per mano o mezzo personale ma in un modo di porsi assolutamente impersonale, che viene prima dell’io. Le pellicole che si avvicinano a questa ripetizione sono Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere), Manhattan e Ombre e nebbia. Sono discorsi già creati, una riproduzione esistenziale.
La curiosità, si pone in una condizione di meta individualità, in cui sussiste la totale incapacità di concentrarsi sulle cose, sul mondo, in cui le tematiche e i quadri visivi scivolano prima che si possa vedere e carpire il vero significato di quel tutto che è anche nulla. Io e Annie, Stardust Memories ed Harry a pezzi si focalizzano su ciò che va oltre l’io, oltre l’uomo e il suo neo.
L’equivoco è forse la contingenza filmica più interessante del panorama alleniano poiché va ad intaccare la substantia che fa un po’ da denominatore comune di molte sue pellicole. Ciò che rievoca quella perenne foschia presente nei fotogrammi è l’assoluta mancanza di linearità e nitidezza dei personaggi, dello stesso regista, proprio rispetto a loro stessi, al loro mondo. Una condizione di inappropriatezza che provoca grandi difficoltà anche nel porsi davanti allo specchio a ridefinire i propri limiti.
Già, gli specchi. Cocteau affermava che essi dovrebbero pensare più a lungo prima di riflettere.
I suoi dividui si trovano nella più totale incapacità di cogliere la propria res, raggiungere non proprio il nirvana spirituale ma un’egotregua quantomeno, uno stadio transindividuale in cui l’individuo perde consistenza e quel poco che resta non è per nulla facile afferrarlo a mani nude. Come la sua nebbia newyorchese. Provaci ancora,Sam , Hannah e le sue sorelle, Crimini e misfatti e La rosa purpurea del Cairo sono solo alcune dimostrazioni di questa perdizione logica. La deiezione crea falsi fondamenti, vacue certezze, per questo il risveglio quando arriva è brusco, disatteso e raggelante.
Eppure bisogna avere il coraggio di combattere e non temere l’ieraticità alleniana, il suo mondo caotico nevrotico spasmodico piovoso terroso liquido antimetafisico è per sempre compromesso. Ad esempio il suo periodo che ci tocca più da vicino in termini temporali è coinvolto da una psicogeografia metropolitana. Tocca tante città del vecchio continente e prova, senza sempre riuscirci, a capire quali fossero le loro psicosi e in che modo esse si pronunciassero. Ma la cosa non può riuscire egregiamente se il binocolo con il quale guarda le nostre capitali è abbagliato dalle luci dell’Empire State Building: Roma non è New York, Parigi non è Barcellona. Per questo l’ultima fase della sua longeva e asfittica esperienza cinematografica ha il gusto del declino, e anche del paradosso poiché il disadattato per definizione trova il suo straniamento psicologico in Europa, lontano dalla sua patria filmica, cercando di (dis)adattare il suo caos al nostro, rendendosi ancora più instabile e inappropriato. Ma credo che tra i molti detriti, Midnight in Paris possieda un’eccentricità più interessante, forse poiché è riuscito a vivere Parigi sia da visitatore che da abitante, da amante e contemplatore. Diversamente da come ha provocato e analizzato il sangue catalano e quello italiano.
Nel film, Harry a pezzi afferma con sincera freddezza “Ho sempre soldi per le puttane”.
Non solo io direi. Osservando i suoi film non si può far a meno di notare che esistono dettagli insignificanti ,ma chi può dirlo, che riescono a dar definizione alle sue pellicole, una decostruzione simbolica di tutti quei cavilli che se sottratti toglierebbero inevitabilmente gusto ai suoi film e soprattutto ai suoi personaggi. Cose come il jazz, i romanzi, le camice ,le sottane, i medici, Svetlana Stalin, Socrate, Cummings, la psicanalisi, Groucho Marx, Resnais, la morte, il disagio, il disamore e il silenzio (intervallato da quell’eterno suo incespicare).