Buon compleanno Walt Disney: il poeta visionario del XX secolo
Cos’hanno in comune Apollinaire, Proust e Walt Disney? Molto più di quanto ci si aspetti. Vi spiego il motivo di tale azzardo apparente.
Apollinaire rifiutava la razionalità, era antiborghese e voleva creare un tipo di arte poetica ed estetica che fosse parallela alla vita ma che se ne sapesse ricongiungere nello stesso tempo: creò dei componimenti tesi a formare un disegno che rappresentasse il soggetto della poesia, i cosiddetti Calligrammes, un tipo di creazione che si piega su se stessa, un modo satirico e controverso di vivere la poesia del sociale, formando una visuale ludica ma reale del proprio operato. Proust d’altro canto, quell’immenso antieroe moderno, fu un vero precursore del dadaismo francese, non associabile totalmente al loro credo, ma se ci soffermassimo per un attimo al suo tempo ricercato e poi ritrovato (fermarsi al suo tempo è già quanto dire), non si può che dichiarare che esso sottendesse un tema incosciente, il tempo dell’infanzia, in cui le regole sono archetipi involontari e i colori, le sue linee fanno appello ai ricordi, ai sogni e ad un’incoscienza mentale che è quanto più vicino a ciò che Disney rigettò sui suoi fogli nei primi anni ’20. Disney non ha fatto altro che cercare una strada per poter tornare ogni giorno in punta di piedi alla sua infanzia sottratta, come Proust rievocava i suoi ricordi mordendo una madeleine. E come Apollinaire, prese le liriche dei suoi pensieri e ne cacciò tutto il senso estetico, un po’ ridicolo e un po’ grottesco. Lui vedeva un cartone, un’immagine e non li vedeva fermi, non creava dipinti da contemplare. Le sue composizioni erano fatte di polmoni, di un cuore, capaci di riflessioni, sogni, con un lavoro e un obiettivo: prendere vita e mostrare come anche le cose impersonali potessero avere una soggettività. Ecco cosa hanno in comune. La poesia visiva. Potremmo azzardare che fossero tutti dei dadaisti un po’ discussi, ognuno in modo ecletticamente soggettivo.
Walt Disney, come la maggior parte dei geni incontrastati, partorì le proprie gemme artistiche in un periodo di crisi, anzi in una totale depressione storica. Definiti gli Anni Ruggenti, locuzione nata negli Stati Uniti, le basi storiche di quel tempo erano scandite dalle intemperie della Prima Guerra Mondiale, che aveva gettato il mondo nell’orrore scuotendolo dal torpore degli anni d’oro trasognanti e limpidi, dalla presenza delle Suffragette, l’evoluzione della femminilità che non aveva niente da invidiare alle odierne Femen, e ultimo ma non meno importante La Grande depressione, con il crollo di Wall Street, in cui fu palpabile il delirio di impotenza in cui versò l’America, allontanandosi sempre più da quell’idea malsana e infondata in cui potersi cullare dell’avvento di un futuro prosperoso e idealizzabile.
Walt Disney: “se puoi sognarlo, puoi farlo“
Ecco dove attecchì quel gran genio del mio amico Walt. Il mondo aveva un gran bisogno di tornare a sognare. Il processo però non fu né facile né immediato. Quando si è abituati a guardare il mondo in bianco e nero, vederlo a colori è un’invasione, uno shock visivo. Come quando si assisteva nella Grecia di Euripide alle sue beneamate tragedie. Incrociare di punto in bianco le favole di Esopo fu dissonante, quasi uno spiacevole incontro. Ed è lì che incominci a chiederti, cosa ha la mia mente di dissennatamente invalido? Perché sento di potermi raffrontare cosi poco alle sue favole? Sento un sospiro all’orecchio familiare gentile delicato romantico eppure è illusorio. Allora non provo nemmeno a capirlo.
Quando una cosa è lontana dal nostro mondo tendiamo a sottrarcene.
Eppure ad oggi, dopo così tanto parlare e straparlare, le sue invenzioni non accennano a voler tramontare. Primo fra tutti il suo alter ego. Topolino.
Disney lo modellò come la creta. Prese il carattere di un solitario vagabondo, le sue fattezze furono ispirate niente po’ po’ di meno che da Charlie Chaplin, e lo unì all’immagine dello sfortunato Oswald coniglio fortunato (che aveva creato l’anno prima, nel 1927), arrangiandoli come un componimento musicale. Ironizzò della sua stessa arte rimodellando una statua a sua somiglianza estetica e creò un topo, un ready made dissacrante e stupefacente allo stesso tempo.
Entrare in contatto con le sue destrutturazioni visive, o almeno quelle che concernono il mondo e come lo rendeva credibile il cinema di allora, è come una clava che si abbatte sulle convenzioni artistiche. Un rifiuto della razionalità che per gli occhi presbiti di uno spettatore medio poteva risultare di ardua esemplificazione. Nella sua filosofia c’era una volontà di recuperare l’emotività ma senza dimenticarne la dose di verità, era per questo che funzionava egregiamente. Esempio calzante fu quando decise di voler ricreare un prospetto cinematografico del romanzo Mary Poppins, andando incontro ad uno dei rari casi in cui di animato poté ben poco, date le allergie dell’autrice verso le sue animazioni che poco si accostavano al carattere integerrimo della supertata per eccellenza. Nonostante tutto fu un successo, se non il successo più acclamato e che non lascia spazio a dubbi alcuni per quanto concerne la riuscita eccelsa di un prodotto marchiato Disney.
L’illusione che creò Walt Disney è pari ad un onirica astrazione del nostro subconscio, è sempre li a ricordarci uno spessore dimenticato, un riverbero che parte dalle ossa, innestato tra lo stomaco e il petto, non ci abbandona, perché sta li dove lo riponiamo in adolescenza. L’infanzia è un regno così imperfetto che la sua assoluta costruibilità o riproduzione risulta impossibile in età adulta, ma c’è chi c’è riuscito. Sono quelle menti che sanno guardarsi così dentro da perdersi in quella ricerca, molti non tornano. O se tornano non possono che essere irriconoscibili. Fellini indagò cosi a lungo e in modo frenetico e viscerale che in molti dei suoi sogni non riusciva a riconciliarsi, a trovare un modo per poterne parlare. Allora mostrò cosa vedeva, cosi come fece Saint Exupery, così come fece Collodi.
Perché, vi chiederete, riguardare in età adulta ciò che da bambino mi attraeva? Mi persuadevo, mi ancoravo a quei dipinti in movimento pieni di incanto, che sono ormai in totale disarmonia con la mia vita attuale. È come tornare verso un amore del passato, i cartoni sono gli amori che ci siamo lasciati alle spalle, un amore che abbiamo alle volte oltraggiato, disertato, obliato e lasciato che la polvere prendesse corpo: dentro di loro o dentro di noi? È come se emigrassimo da noi stessi e ci tradissimo, dimentichiamo di essere, essere innocenti, deboli, dimentichiamo di come ci si sentiva a stupirsi di una cosa frivola, ma per chi era frivola? Cos’è frivolo? Cos’è che vale? Cos’è che muore? L’infanzia che lascia la tua vita è un sorriso sottratto al tuo volto. La vera rivoluzione del nostro mondo mostruosamente disincantato non è maturare, non è crescere per necessità anagrafiche, dovremmo riscoprirci romantici. Romantico come chi sa attingere a qualsiasi sentimento per poter sovvertire l’anatema che ci hanno conficcato nelle costole, che non ci fa piegare, piangere, stramazzare al terreno, ben venga sollazzarsi per poco. L’infanzia che ci aiuta a ricreare Walt Disney subisce un processo obbligatorio di auto idealizzazione, a tal punto che incominciamo ad amare ed osannare l’inconsistenza che viene placidamente rinnovata dal nostro controvertibile inconscio. Come poter definire Disneyland se non un’opera di assoluta auto idealizzazione? C’è chi lo considera un prototipo tangibile di ipermediazione o di iperrealismo, in quanto li la fantasia è spoglia del suo manto astratto. È reale, è tutto puramente reale, quasi più forte di qualsiasi realtà. Camminare in un mondo in cui tutti lavorano, si respira aria buona, le persone sono cordiali, non esistono guerre, non c’è abbandono. Ci sono solo dei pupazzi giganti che ci accolgono nella visita e una volta c’era anche un signore con i baffetti che distribuiva biglietti da visita con il suo autografo. Eccolo che si mostra con il suo sorriso burlesco e sagace. Un burattinaio cinematografico in tutto il suo candore.
Le sue opere sono veri e propri edifici, di freudiana memoria, in cui i bambini scoprono di poter liberamente abitare le loro illusioni, e chi invece è stato sfrattato da tempo può riscoprire una città sepolta, un’ Atlantide interiore in cui appagare i vuoti psichici imposti da una rimozione arbitraria che comportò lo svezzamento della fanciullezza.