Parenti serpenti(1992) di Mario Monicelli potrebbe essere considerato, sotto molti aspetti, il perfetto controcanto dei cinepanettoni. Questi ultimi si caratterizzano per la capacità di sfruttare il mito moderno della vacanza natalizia, al fine di costruire delle narrazioni volte ad ammortizzare i conflitti presenti nella società italiana. I cinepanettoni forniscono così dei (remunerativi al botteghino) dispostivi di assoluzione e accettazione di modelli di comportamento radicati nella norma identitaria del Belpaese. Seguono, cioè, una certa tradizione della commedia all’italiana, che, come più critici hanno sottolineato (da Micciché a Grande e Canova), ha per lo più svolto il compito di fornire delle esaltazioni deformanti del qualunquismo, piuttosto che dei reali spunti di critica sociale. Ovviamente ci sono le dovute eccezioni e i film di Monicelli, in larga parte, ne sono un esempio. Parenti serpenti risulta infatti interessante grazie alla sua capacità di usare la cifra della commedia, per destrutturare tutta una serie di modelli comportamentali e di mitologie tipiche di quella norma identitaria italiana, esaltata dai cinepanettoni.
Parenti serpenti. Monicelli contro la famiglia democristiana
La pellicola è ambientata durante il Natale. Fra il 24 dicembre e il 1 gennaio. Racconta di una riunione di famiglia in una città del sud, Sulmona, che però ha più le sembianze di un grosso paese. Due sorelle e due fratelli, figli degli anziani Trieste e Saverio, si riuniscono, con i rispettivi coniugi e prole, a casa dei genitori, per festeggiare in nome dei buoni sentimenti e dell’unità familiare. Ci sono i piatti tipici, i regali, i canti come Tu scendi dalle stelle, la neve, il presepe e la messa. Insomma tutto l’armamentario oleografico delle buone cose (di pessimo gusto) di un Gozzano post-televisivo. Infatti non mancano citazioni a Sgarbi, al Maurizio Costanzo Show, né alle partite della Nazionale. Eppure quando gli anziani genitori chiedono di andare a vivere con una delle famiglie presenti, per non passare gli ultimi anni di vita in solitudine, tutte le ipocrisie e i rancori esplodono in maniera grottesca.
È palese come Monicelli si ponga sistematicamente l’obiettivo di colpire la mitologia legata alla glorificazione della famiglia tradizionale, che è stata propagandata per anni dalla cultura democristiana e che trova nelle ritualità natalizie il suo punto di massima espressione. I miti della Sacra Famiglia, del bambinello, dell’amore filiale, della castità, vengono demoliti uno per uno. I buoni sentimenti nascondono solo disinteresse per l’altro, i fratelli non si conoscono realmente, fra le coppie si verificano tradimenti e relazioni sessuali incrociate. Ogni personaggio è mosso semplicemente da egoismo e avidità. Non è un caso che spesso i dialoghi citino la recente fine del Comunismo sovietico. Il regista – fiero comunista fino alla morte – amaramente constata come il mondo sia destinato a un’unica forma di progresso: quella consumistico/capitalista. Ma egli non ne fa tanto una questione ideologica, quanto esistenziale. Il consumismo e il sistema capitalista rappresentano, per Monicelli, la fine stessa di una humanitas in senso classico. Si tratta dell’abbattimento di tutta una serie di valori morali, legati al rispetto dell’altro, all’amore per il prossimo, alla dignità personale o semplicemente alla consapevolezza di far parte di una comunità, che nella sua unità base è rappresentata dalla famiglia. Adesso invece ognuno è una monade in guerra con tutte le altre monadi – secondo la dottrina thatcheriana. E questa guerra, volta al profitto, si nasconde dietro ipocriti valori religiosi, che chiamano in campo quei concetti, quali la bontà, la famiglia o Dio, usati dai protagonisti del film per giustificare le proprie pulsioni egoistiche e le psicosi, tipiche di una media borghesia che non deve più fare i conti con un nemico di classe. Cioè una borghesia che non può più essere messa in crisi da una visione del mondo basata su ideali altri rispetto al mero utilitarismo consumistico. In questa prospettiva la religione, quindi, si presenta marxianamente, come ancella del potere economico, svuotata di qualsiasi valore morale e volta a instupidire la gente.
Parenti serpenti: valutazione e conclusione
Monicelli racconta tutto ciò con quadri essenziali. Come sempre nel suo cinema, sono i personaggi a farla da padrone e la messa in scena si adatta. Gli spostamenti di macchina sono minimi. Non vi sono virtuosismi e gli attori – tutti in gran forma – sono sempre al centro del quadro. Va inoltre notato come, con una semplicità disarmante, il regista riesca a dipingere realmente l’affresco di un piccolo mondo antico, che si vorrebbe puro. A riguardo si veda la scena della processione della vigilia, con la famiglia protagonista che osserva da dietro le finestre, illuminata dall’albero di Natale, mentre la neve cade copiosa. Nonostante gli intenti satirici, Monicelli, ponendosi in una prospettiva quasi infantile – tutto è narrato dal punto di vista del piccolo Mauro, figlio di una delle coppie – riesce a costruire una reale atmosfera fiabesca. Così Parenti serpenti, assecondando la mitologia nazional-popolare natalizia, può efficacemente inserire in questo canto di Natale italiano tutte le note stonate, atte a far emergere il marcio che sta dietro la tradizionale rappresentazione (democristiana) della famiglia. Cioè attraverso un procedimento ossimorico, Monicelli attiva un processo di destrutturazione dell’immaginario italiano normato, efficace, crudele e in grado di disintegrare ogni rimasuglio di ingenuità nello spettatore, posto davanti alla pochezza di un italiano medio, non solo mediocre ma, soprattutto, infame e crudele.