David Lynch – il regista dell’inconscio
David Lynch è un architrave della struttura filmica, le sue pellicole non sono di facile recensione, intesa come re-censire, come rivalutazione. Come Deleuse che si sentiva straniero nella propria lingua, in cui non c’è visione ma sensazione, egli imprime la sua arte declinata ad un ritorno ad un linguaggio d’origine, ancestrale come per Gadda.
Nelle sue pellicole mostra ciò che succede, nella mente, facendo altro. Il suo cinema è un precipitarsi, un susseguirsi di atti onirici che trovano il loro etimo nello smarrimento, nell’alienazione. Quando Lynch scrive è un alieno, non media, non autorizza, non svela ma rivela, non discute ma riflette, ci circoscrive all’interno di un non luogo in cui non c’è comunicazione, in cui non esistono dimensioni spazio-temporali a cui appigliarsi, in cui forma sta a sostanza come lingua sta a concetto.
Nel 1977 genera un lungometraggio decadente e perverso, Eraserhead – La mente che cancella, in cui Henry Spencer (Jack Nance) subisce gli squilibri della famiglia della sua ragazza, del quale diventa padre di un essere deformato e lamentoso che porterà scompiglio e follia nella testa del protagonista. Ma ciò non può che essere un limitatissimo paradigma del suo cinema, che non dice nulla di nuovo ma ci impone di guardarci ad uno specchio compromesso ma non per questo irreale.
Esempio perfetto della persecuzione del suo genere è Inland Empire, uscito nel 2006. Essa è un’opera che si auto compiace, che mostra la differenza tra il girato filmico e l’arguzia di una ripresa che segue se stessa. Un cogito che percepisce il suo circolo vizioso, in cui un’attrice, Nikki Grace (Laura Dern) si raffronterà con un ruolo da protagonista tanto agognato, in un film diretto da un iconico Jeremy Irons, intitolato On High in Blue Tomorrows (Il buio cielo del domani).
Viene consolidato un sodalizio sempiterno che lega Lynch alla musica e all’arte: la prima delle quali affidata ad un maestro della perdita di identità, Angelo Badalamenti, che compone con l’intento che le sue note abbiano senso e vita solo attraverso quei fotogrammi, cosicché la musica se decontestualizzata perda quel vigore spudorato. Come in Velluto Blu (1986) in cui appare per la prima volta nei suoi film Isabella Rossellini, in cui fa un geniale uso del discorso visivo, immagini in sovrapposizione, con un voluto fastidio uditivo e cromatico.
Le scene perdono quel margine cronologico per invaghirsi unicamente dei detriti, in cui l’impero del subconscio è perso, malato, il cui unico filo conduttore non è la storia in sé: apprendere la trama non è un mezzo per comprendere.
Comprensione e Lynch non fanno rima, sono dissonanti, perché cum prendere è un atto di puro raziocinio ed è proprio l’ultimo bagaglio di cui si possa necessitare per visionare i suoi film.
Non sono documenti con un soggetto, un predicato. È come trovarsi in una spiaggia piena di orme e cercare di dare un nome ad ognuna, creare collegamenti, che non sono funzionali alla fruizione delle sue pellicole.
Lynch demolisce l’immagine con i colori, con i flash, il montaggio. Non c’è dialettica, non c’è fantasia, è tutto mostruosamente pletorico, palazzi che si tengono in piedi grazie ai corpi, non c’è altro da apprendere se non quello stesso spaesamento, in bilico tra una deteriore indagine surrogata del sociale e un anabasi verso le sfere empiriche a cui si ha accesso non consciamente.
Questi film non possono essere recepiti in toto perché vengono guardati con gli occhi sbagliati, quelli a cui siamo abituati ad offrire una porzione di mondo che sa distinguere il bello dal brutto come una cosa compresa da quella non comprensibile, da ciò i suoi film non essendo compresi vengono definiti sostanze informi e disconnesse. Niente di più falso. In questo caso il cinema non è l’ennesima replica del mondo, di una storia, di una vita ma è una deformazione, una replica deformativa.
Formidabili esempi del suo talento in contrapposizione con le oniriche astrazioni sono The Elephant Man(1980) e Cuore Selvaggio(1990), entrambi tratti da romanzi in cui si impongono due attori quasi sconosciuti a quei mondi illocutori, rispettivamente Anthony Hopkins e Nicolas Cage. Due storie ammirabili, sublimi e sofferenti in cui far vincere il libero arbitrio sulle imposizioni etiche e sociali, in cui lascia coincidere espressamente significante e significato.
David Lynch – “Avrei voluto veder accadere cose nella mia vita. Sapevo che niente era come sembrava, ma non riuscivo a trovarne una prova”
La centralità delle sue opere è tutta nella forma, nel linguaggio, come Balzac o Deleuse ponevano le loro idiosincrasi nel metodo di trasferimento e non nel messaggio stesso. Nei film di Lynch vengono abbandonati i collegamenti tra storia e intreccio, tra versi e prosa, e ci si riappropria di una commissione arcaica e poco rispettata che il cinema stesso sembrò aver dimenticato, perso tra la commedia e il melodramma, che è superare il verbo, inteso come il messaggio da leggere e da carpire, per la sola percezione di una iperbole, una perifrastica che si scomponesse tra io, soggettività e noumeno.
Non sia detto che confrontarsi con Lynch sia facile, non si migliora, quel lume che avvicina la mente al sapere viene smorzato ed è li che viene ad instaurarsi un nuovo lascito, un crinale che unisce e divide sperimentazione della grammatica filmica e la tirannia dell’azione che impone una storia, una narrazione per necessità strutturali. Ecco che il pubblico si smarrisce, lo spettatore è inerme perché l’immediatezza dell’atto filmico è sconsacrato da qualsiasi consequenzialità.
“È tutto ok, stai solo morendo.(Inland Empire)”
Se Spielberg scrive con la luce, Lynch spegne ogni lume ma accende le sinapsi.
Veste i suoi personaggi, se così si possano definire, dei loro intenti, delle loro nevrosi, senza quell’agire, senza uno slancio o motivi che provochino una rivelazione che informi lo spettatore di cosa accada. Perché il pubblico sa recepire laddove si lasci andare, sia libero di darsi, di rievocare un anfratto della psiche che è molto difficile da considerare, ma allo stesso tempo non sa unire, si perde nei dettagli disfattisti della mente, le cui connessioni sono l’anticristo e volgono nella direzione opposta rispetto all’intermediazione filmica, in cui viene sviluppata una sorta di sfiducia nei confronti dell’immagine del regista. Con Lynch si inaugura la morte del linguaggio filmico e nasce un’antinarrazione che è svestita di un soggetto in cui gli antagonisti siamo noi.