Buon compleanno Massimo Troisi: la lingua, le donne e l’elogio della lentezza
Parlare di Massimo Troisi significa fare appello ad una visione di mondo, ad una forza invisibile che tira verso sé con forza e discrezione.
Non è mai stato solo un attore determinante o un regista chiuso nelle sue incertezze, aveva una sua trama, un modo di recitare che trattiene a terra; un essere che non ambisce, non deraglia, lui non era alla ricerca di una verità assoluta, svelava le iniquità e l’imbarazzo della sua vita consegnandole al pubblico ancora pungenti, senza grandi contaminazioni analitiche.
Troisi spostò il baricentro della comicità della scuola partenopea, diventando un esiliato nella sua stessa patria, parlando napoletano senza focalizzarsi su Napoli e i suoi stereotipi (la teatralità e le capacità canore che per assemblaggio culturale appartengono per natura ai partenopei). Elogiava la lentezza, modulando la voce e frammentandola con i balbettii: con lui la parola è strozzata, incompleta, per questo è immediata e a servizio di chi la percepisce.
Ma il contesto in cui si è sviluppata tale genialità è direttamente proporzionale alla temporalità antecedente: il periodo fascista, oltre 30 anni prima dei suoi esordi, aveva spogliato di ogni regionalismo e di ogni influsso dialettale il cinema, l’educazione, andando ad inficiare la stessa idea di lingua e di mediazione in essa contenuta. Grazie alle commedie dei fratelli De Filippo e al conseguente Neorealismo la dialettica espressiva riscoprì quel briciolo di ideologia geografica ingiustamente trattata con subordinazione. Ed è proprio da qui che potrebbe provenire la sua folgorante necessità di proferire in dialetto, non contemplando evasioni di nessun tipo, la sua lingua ufficiale era il napoletano, la sua nazione però non era la Campania, e il motivo è intuibile.
L’Italia grazie al suo disincanto si apre ad una generazione di commedie che non si lacera di battute volgari o doppi sensi ma di un’ironia legata ai gesti disarticolati, all’improvvisazione, una maestà fragile che s’insinuava con reticenza tra le scene, una pacatezza disarmante, una timidezza folgorante.
Massimo Troisi: la lingua, le donne, il tempo
Visualizzando il suo tempio, non si può fare a meno di notare che esso è sorretto principalmente da tre travi, tre tematiche, tre pensieri: la lingua, le donne, il tempo.
La lingua: una questione meridionale
Partiamo con la lingua. Troisi non ha mai avuto termini o parole adatte nei suoi film per imprimere un’idea propria, ma il modo di porsi si, e quello è innato. Ha scelto sempre il napoletano perché per sua stessa ammissione è l’unica lingua che conosce, infatti in tutti i suoi film, eccezion fatta per Il Postino, la credibilità dei suoi personaggi è fortemente legata al dialetto, a come scuce vocali e consonanti, smembrando il senso della frase, convertendo la parola in prossemica, allontanandola dal puro fonema, puntando direttamente al significato che è solo trasmesso con la musicalità, la mimesi, senza scandire o definire. Un esempio lampante è il litigio all’inizio di Ricomincio da tre tra Gaetano (Troisi) e Lello Arena, in cui molti discorsi sono tenuti in bilico: la voglia di evasione, di cambiamento, la sua stanchezza, sono sorretti in modo viscerale ed autentico dal suo corpo e dalla sua voce. Oppure in Scusate il ritardo quando lui, attraverso il personaggio di Vincenzo, subisce i consigli critici della madre, secondo la quale deve darsi una mossa e ripiegare al meglio la sua vita proprio come stava facendo il fratello: anche quando il parlato è più lento o mangiucchiato e incomprensibile, l’ars comica è stupefacente, quasi indescrivibile poiché è senza artifici, libera di una frase che la contenga, si ride con la testa, totalmente.
Le donne: figuranti o spalle comiche
Eccoci alle donne. Queste donne infedeli, maniache, emancipate, determinate. Dio solo sa quanto fosse vero il suo rapporto filmico e quanto corrispondesse alla sua vita. Ne Il Postino ad esempio, Maria Grazia Cucinotta interpreta Beatrice, una donna con una forte carica erotica, femminile e reticente verso di lui che, impacciato e timido, interagisce in modo poco tradizionale con lei, mostrando il suo desiderio attraverso le poesie di Neruda e facendo si che si abbandonasse, totalmente inerme, alla sua semplicità. Ma non tutte le interazioni per così dire si suggellano poi nel matrimonio, anzi. Ottimo esempio di intransigenza è Marta di Ricomincio da tre. Fiorenza Marchegiani è una donna che sa prendere l’iniziativa, è cosciente di ciò che vuole e non conosce quasi debolezze o gelosie, mandando totalmente in tilt l’anima impacciata di Gaetano. Giuliana De Sio è Anna in Scusate il ritardo, una ragazza paurosa, insicura, che pone ogni certezza sull’instabilità: nonostante ciò Vincenzo si perde discutendo anche con una donna fragile come lei facendola crollare per l’esasperazione, imbarcandosi in discorsi fuori luogo. Le donne fanno un po’ da tramite tra la sua attrattiva, forse reale, e il nesso comico che si interpone, poiché essendo vera sulla scena come nella vita la sua estrema timidezza, queste presenze così dissonanti a volte riescono ad essere molto di più che semplici figuranti di scena, mostrando come si possa far da spalla comica senza dover reggere battute o parteciparvi attivamente.
Il tempo: matematica esistenziale
Ultimo ma non meno importante, il tempo. Tutto, tutto verte intorno alla temporalità. Troisi riesce ad incastrare discorsi che dovrebbero avere gestazioni immense in poco più di qualche scena; è dinamico, fluido, le scene sono dilatate in modo che tutto ciò che avviene va di pari passo con la sua eloquenza un po’ claudicante, in un certo senso le due cose sono armoniose: ad esempio quando cerca di insegnare a Leonardo Da Vinci a giocare a briscola in Non ci resta che piangere, oppure quando spiega a Lello che non possono esistere miracoli alti e miracoli mediocri, tanto che il discorso in questione si perde, scivola via dall’obiettivo nonostante loro continuino a discuterne. Tempo e tecnica sono fondamentali ma in lui sembrano essere la stessa cosa, i suoi modi sono da un lato misurati dall’altro improvvisati, poiché non teme di destreggiarsi con lunghissimi discorsi parlando sia di cose inique che di dettagli bizzarri, come quando afferma che non è un lettore accanito e non legge libri in nessun senso perché non potrebbe mai stare al passo e leggerli tutti visto che a leggere è uno solo e a pubblicare sono milioni, sarebbe una gara persa in partenza. Ha dei modi geniali di porsi che ipnotizzano, senza alcuna linearità, che hanno il giusto sapore del quotidiano, semplici. Emblema di ciò sono i farfugli che si scambia con Lello Arena in cui Troisi prodiga una vita da orsacchiotto, sovvertendo il luogo comune del leone e della pecora, trovando un’ingegnosa via di mezzo tra la fugace ma dirompente vita da leone e la vergogna di campare da pecora con longevità e disonore.
Le sue pellicole sono dei doni enormi che ci ha fatto, un patrimonio superlativo. E non si può fare altro che essere d’accordo con Benigni quando ha scritto che per lui non vale il detto che è del Papa, morto un Troisi non se ne fa un altro.