Da All’ovest niente di nuovo a Full Metal Jacket: 5 film contro la follia della guerra
Era il 28 dicembre del 1895 quando i fratelli Lumiere proiettavano una sequenza di immagini in un seminterrato di un locale parigino che più tardi venne considerata il primo esempio di opera cinematografica. Neanche vent’anni dopo l’umanità era coinvolta in un conflitto di proporzioni mondiali che ha segnato la fine degli imperi europei, ma anche dell’ottimismo ottocentesco ed il crollo di ogni certezza positivistica. Si combatteva una guerra nuova, una Grande Guerra. E mentre l’etica guerriera era lasciata marcire insieme ai cadaveri nelle trincee e il sentimento nazional-patriottico appassiva lasciando il posto ad un’insoddisfazione amara in chi ancora non aveva perso se stesso nella pazzia, Wark Griffith dava alla luce, nel 1915, uno dei primi esempi di cinema in senso moderno: Nascita di una nazione, un film sull’America al tempo della guerra di Secessione.
Il cinema è nato in Europa, come i fascismi. Forse era il suo destino soccombervi. Fatto sta che nel primo dopoguerra il cinema europeo ha conosciuto il suo periodo più buio, dove la creazione sublime dello scorso millennio è diventato il principale strumento di propaganda dei regimi. In Italia, Germania, Spagna e URSS i dittatori seppero sfruttare le potenzialità comunicative e persuasive delle immagini che, proiettate sullo schermo, incantavano chiunque. La magia del cinema è stato il sostentamento dei totalitarismi, l’oppio dei popoli, altro che religione. Stordita, confusa, disperata, l’umanità si preparava al più atroce dei conflitti. La Seconda Guerra mondiale, con i suoi 55 milioni di morti, le bombe nucleari, i lager nazisti e i gulag siberiani, ha cancellato in appena sei anni secoli di civiltà. Eppure, mentre si scrivevano le pagine più nere della storia, il cinema ha azzardato qualche piccola rivendicazione dall’altra parte dell’Atlantico: Charlie Chaplin nel 1940 ridicolizzava Hitler immaginandolo perso nei suoi sogni di gloria mentre ballava con un mappamondo. Finita la guerra la reazione non tardò neanche da noi: Rossellini già dal 1943, anno della liberazione dal regime fascista, preparava le riprese del suo capolavoro Roma città aperta, con il fermo intento di documentare, informare, o meglio, ci ammonirebbe Italo Calvino, esprimere.
Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo.
Così descriveva il neorealismo lo scrittore e partigiano che abbiamo amato da bambini e da adulti. È nella storia dell’uomo, prima ancora che in quella del cinema, raccontare; raccontar-si, redimersi descrivendo le sofferenze, la fame, le umiliazioni e la follia che la guerra porta con sé –una guerra, una qualunque-. Non ci imbarazza, dunque, né sorprende che l’industria cinematografica abbia tratto straordinari profitti dai film di guerra. Tutti abbiamo dovuto studiare la storia, ma abbiamo sempre preferito che ci venisse raccontata, dal nonno e dalla nonna, da Fenoglio e Pavese, da Coppola e Kubrick…
Cinque film indimenticabili contro la guerra
5. All’ovest niente di nuovo (1930) di Lewis Milestone
Il film che fece vincere a Milestone la sua seconda statuetta come Miglior regista -ne aveva vinta un’altra l’anno precedente per Notte d’Arabia-, fu anche la terza pellicola nella storia ad aggiudicarsi l’Oscar come Miglior film. Riconoscimenti formali per quello che è da considerare a tutt’oggi un capolavoro, nonostante sia stato uno dei primi esperimenti hollywoodiani -riuscitissimo, evidentemente-, niente a che vedere con il remake per la TV del 1979, assai meno intenso. L’eccezionalità del film risiede, oltre che in qualche ottima ripresa delle battaglie, nel progetto stesso: adattare il romanzo di Eric Maria Remarque al grande schermo, sempre più accessibile ed amato da tutti. Una scelta coraggiosa perché, essenzialmente, un invito alla riflessione sulla futilità e le atrocità della guerra negli anni delle pericolose tensioni che precedettero lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Incredibile che il film sia riuscito a sfuggire alla censura nazista ed arrivare in Germania. Carico di una straordinaria vis polemica nei confronti della retorica dei falsi maestri che esaltarono la guerra agli albori della prima guerra mondiale allo scopo di reclutare giovani soldati-vittime, ingenuamente persuasi di agire nel bene delle collettività e poi delusi e feriti dalla morte dei compagni, il film è capostipite di una lunga tradizione antimilitarista cinematografica.
L’ho visto morire, è la prima volta che vedevo la morte. E poi sono uscito all’aperto, e mi è preso una tale gioia di essere ancora vivo che mi incitava a camminare presto. Ho pensato allora alle cose più strane come trovarmi su prati fioriti in compagnia, pensa, di una donna. E poi, poi ho sentito in me come delle vibrazioni elettriche che mi hanno preso tutto, e allora mi sono messo a correre, udivo voci di soldati che mi chiamavano e io correvo, correvo, e avevo l’impressione di non poter più respirare; e adesso… adesso ho fame.
4. Il grande dittatore (1940) di Charlie Chaplin
Quando la denuncia è satira diventa pericolosa, ma quando si presenta in forma di parodia è disarmante. L’artista Chaplin interpreta un barbiere ebreo incredibilmente simile a Adenoid Hynkel, il grande dittatore della Tomania -goffa caricatura di Adolf Hitler- impegnato a discutere il suo piano di espansioni e conquiste con Bonito Napoloni, dittatore di Batalia -indovinate a chi si è ispirato Chaplin?-. Per uno scambio di persona, equivoco che è fonte principale della comicità ed originalità della commedia, Hynkel viene catturato ed il barbiere ebreo si trova a vestire i panni del dittatore. Potrebbe essere l’occasione per rovesciare il regime, ma il protagonista si lascia sopraffare dal suo senso di giustizia ed in diretta mondiale lancia un appello all’humana pietas, alla libertà e alla fratellanza, tra i monologhi più preziosi della storia del cinema.
L’applauso da parte dei soldati del Führer è un messaggio positivo di speranza. Il film, manco a dirlo, fu vietato in tutta Europa. Mussolini chiese espressamente di “ignorare la pellicola dell’ebreo Chaplin” ed in Italia fu distribuito solo nel 1961 e neanche nella sua versione integrale; furono tagliate le parti in cui vi erano riferimenti che potessero offendere la moglie di Mussolini-Napoloni, ancora in vita.
3. Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini
Con questo capolavoro Rossellini dimostra che la realtà commuove più della finzione. L’epopea povera della liberazione batte, sul piano etico ed estetico, lo squallido e ripetitivo “cinema dei telefoni bianchi” e conquista il Grand Prix a Cannes. L’urgenza storica che aveva spinto Rossellini ad intraprendere il progetto, affiancato da Federico Fellini, durante gli ultimi mesi funesti prima della caduta definitiva del regime, l’ha spinto a continuare il film in condizioni estreme. Il regista non poté infatti presentarlo in anteprima a Cinecittà per mancanza di mezzi e, per riuscire a completarlo, utilizzò una pellicola scaduta. Eppure, si tratta di uno di quei pochi casi fortunati in cui quando tutto sembrerebbe decretare l’insuccesso di un’opera, questa viene salvata e non a posteriori, ma dai contemporanei che già iniziavano a farsi piacere l’impostazione documentaristica. La realtà nuda e cruda lascia grande spazio alla rappresentazione dei sentimenti che sono di per se stessi, in virtù della loro autenticità e semplicità, una protesta contro l’occupazione tedesca nella capitale. Anna Magnani dà i brividi quando si lancia nella corsa disperata dietro al camion che si allontana con suo marito catturato dai nazisti in una scena indimenticabile che è una grande lezione di cinema e recitazione.
Il merito di Rossellini è anche quello di aver raccontato la guerra in modo diverso, adottando un altro punto di vista: quello del fronte interno, o meglio della resistenza interna raccontata dai suoi sostenitori più umili, un tipografo antifascista prossimo al matrimonio, il parroco di paese (Aldo Fabrizi la cui interpretazione è un altro grande vanto per il film) che per difendere i compagni non esita a prendere a padellate un anziano disabile, bambini dal faccino pulito che vedono in un attimo svanire il loro piccolo sogno rivoluzionario.
2. Apocalypse now (1979) di Francis Ford Coppola
Mi piace l’odore del napalm di mattina.
The End dei Doors è il sottofondo musicale della sequenza memorabile che apre il film: il capitano Willard (Martin Sheen), gli occhi lucidi e lo sguardo perso nel vuoto, non riesce a guardare le pale del ventilatore della sua camera d’albergo a Saigon senza immaginarsele come eliche di elicotteri. C’è chi crede che per la nostra generazione sia più difficile conoscere se stessi. La guerra chiedeva subito di scegliere cosa diventare: un disertore, un partigiano, un soldato, un eroe, un pazzo. Coppola dimostra che non è così. Apocalypse now, come disse lo stesso regista, non è un film sul Vietnam, ma è il Vietnam stesso. A rendere la pellicola un capolavoro è il fatto che il viaggio di Willard per recuperare il colonnello Kurtz (Marlon Brando) impazzito e ritiratosi nella giungla a combattere una guerra inesistente, assume la forte valenza simbolica di un viaggio in se stessi, alla scoperta delle contraddizioni dell’animo umano, violentato, snaturato, umiliato dalla guerra, ma umano, appunto. Come sosteneva Sartre, niente è inumano, neanche la guerra: l’umanità non ha una sola definizione (positiva), ma definisce continuamente se stessa in rapporto al contesto. A bombardare i villaggi del Vietnam diffondendo con gli altoparlanti degli elicotteri la Cavalcata delle Valchirie di Wagner, sono uomini vuoti sì, come dice Kurtz, riprendendo una poesia di Eliot, ma uomini. Il colonnello Kilgore (Robert Duvall), fanatico guerrafondaio innamorato del napalm, guida Willard ed il resto dell’equipaggio nella risalita del fiume Nang, un perfetto Caronte, traghettatore infernale del viaggio dantesco. Coppola rappresenta il Vietnam, l’isteria e l’orrore in un unico struggente quadro apocalittico. Quell’orrore raccontato da Marlon Brando nel monologo più celebre del film.
1. Full Metal Jacket (1987) di Stanley Kubrick
Stanotte vi porterete a letto il vostro fucile. E darete al vostro fucile un nome di ragazza. Perché sarà quello l’unico buco che voi altri rimedierete qui dentro. I bei tempi dei ditalini alle vostre Mary Jane fica rotta, con le loro belle mutandine rosa sono finiti! Siete sposati al fucile quel coso fatto di legno e di ferro. E rimarrete fedeli soltanto a lui. Ispezion arm! Pronti alla monta! Montar! Ispezion arm! Preghiera! Questo è il mio fucile. Ce ne sono tanti come lui ma questo è il mio. Il mio fucile è il mio migliore amico. È la mia vita. Io debbo dominarlo come domino la mia vita. Senza di me il mio fucile non è niente. Senza il mio fucile io sono niente. Debbo saper colpire il bersaglio. Debbo sparare meglio del mio nemico che cerca di ammazzare me. Debbo sparare io prima che lui spari a me. E lo farò. Al cospetto di Dio giuro su questo credo. Il mio fucile e me stesso siamo i difensori della patria, siamo i dominatori dei nostri nemici, siamo i salvatori della nostra vita e così sia finché non ci sarà più nemico ma solo pace. Amen. Buonanotte signorine!
L’elmetto di Joker di Full Metal Jacket, con il simbolo della pace accanto alla scritta Born to kill, è l’emblema di quella generazione di giovani americani ai quali sono stati tagliati i lunghi capelli portati alla maniera dell’epoca e sostituiti i jeans a zampa di elefante con le anonime divise militari.
Nella prima parte del film, Kubrick mostra come l’addestramento militare fosse solo l’aspetto più superficiale del vero compito del sergente Hartman: trasformare quel che restava di un mucchio di ragazzi poco convinti, violentemente privati della propria individualità, in macchine da guerra, privarli di sentimenti e di ogni sorta di inibizione morale davanti alla prospettiva di dover uccidere. L’orgoglio di Hartman è Palla di lardo (Vincent D’Onofrio) che dopo aver subito un’infinità di originalissimi, esilaranti ma spietati insulti da parte del sergente, diventa un ottimo tiratore, ma feroce e paranoico, al punto da finire per uccidere il sergente Hartman e se stesso. Il sergente Hartman, vero volto della guerra, fu interpretato da un ex istruttore dei Marines, Ronald Lee Ermey, ed è probabilmente uno dei personaggi più riusciti della storia del cinema. I riferimenti sono infatti molteplici: in Whiplash candidato un anno fa come miglior film agli Oscar, J.K. Simmons interpreta Fletcher, professore di musica estremamente severo che riprende lo stesso linguaggio del sergente Hartman, inducendo un giovane musicista al suicidio.
La seconda parte del film è ambientata in Vietnam, ma neanche gli orribili scenari di guerra riescono ad avere sullo spettatore un impatto più forte delle parole di Hartman. Il film si conclude con i soldati che cantano sul campo di battaglia la Marcia di Topolino che diventa così un inno contro la guerra. La scena è ovviamente intrisa del tipico surrealismo kubrickiano e si presta ad una duplice interpretazione: i soldati hanno completamente perso la ragione o stanno cercando di recuperare l’ingenuità, il gioco, che era stato loro negato?
Testo di Francesca Menna