Frankenstein: recensione del film di Bernard Rose
Uscire dalla viscere della terra, trovare un proprio futuro nella società, rimuovere l’etichetta di mostro. Con queste prerogative si avvicina alla vita Adam (Xavier Samuel), il novello Frankenstein, frutto delle becere e malsane sperimentazioni di un duo di scienziati senza scrupoli amanti del sentirsi Dio giocando con i geni umani.
Ennesimo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Mary Shelley, la pellicola di Bernard Rose, a differenza delle precedenti, si sofferma sullo sguardo di colui che è stato creato, piuttosto che su quello del suo creatore. L’introduzione tra i sotterranei del laboratorio segreto avviene per mezzo delle palpebre di Adam (Xavier Samuel): un gioco di luci e ombre che apparentemente disorienta, lasciando presagire la volontà di un cambiamento, che inizialmente sembrerebbe riuscito.
A differenza dell’opera di James Whale del 1931, nessun fulmine accende la scintilla vitale del neonato Frankenstein: lui è un accavallamento di strati sintetici perfettamente associati tra loro. Nonostante le sue fattezze siano quelle di un ragazzo, la sua coscienza corrisponde a quella di un bambino. Adam è dunque un innocente, vomitato nella cruenta società umana, privo di radici e marchiato a fuoco dagli esperimenti andati male.
Il set in cui ci ritroviamo è la città di Los Angeles, nella quale si racchiudono microcosmi che avvicinano gradualmente il protagonista alla massa: da un laghetto a cui degli alberi fanno da baldacchino si arriva alle periferie vissute dai barboni e in questo tragitto gli unici ad entrare in contatto con Adam sono solo una bambina, un cane e un mendicante cieco. Chi ha l’animo puro e vede col cuore, lo accetta, ma inevitabilmente la sua vita va a rotoli. Fa del male senza volerlo, fa del male per difendersi, perché il mondo gli ha insegnato questo.
Frankenstein è la conferma che con la divinità è meglio non giocare, sia che si tratti di vita che di opere d’arte, il risultato potrebbe essere uno scherzo della natura!
Voler raccontare la psicologia di una nuova vita, venuta al mondo per i capricci di due ricercatori e trovatasi senza infanzia, senza famiglia, casa e amici è senza dubbio un punto di partenza interessante, ma trasfigurare una delle opere più note dell’età moderna ha comunque i suoi rischi. La regia risulta essere un’accozzaglia di generi dismessi, mescolati nel limbo dello splatter e privi di senso.
Alcune scene sembrano aver saccheggiato gli horror di serie B degli anni ’80 che, se è vero che per certi versi hanno dato il via a delle brillanti scie cinematografiche, nel caso corrente vanno a imbattersi poco elegantemente contro i bulbi oculari di un pubblico disabituato a certe défaillance.
Eppure i tratti salienti del romanzo sembrerebbero esserci tutti: la bambina, il cieco, l’idea blasfema di prendere parte al miracolo della creazione, ma la trama devia verso altri orizzonti, come la centralità della figura materna che vede in Elizabeth (Carrie-Anna Moss) prima una madre premurosa poi una gelida calcolatrice. Peccato che questi aspetti non vengono adeguatamente sviluppati, così come viene gettato nel calderone il tentato rapporto sessuale tra lui e la prostituta (Wanda alias Maya Erskine).
Ad essere monca anche la presenza di un nuovo Adam, che ci dà la possibilità di vedere, sul finire della pellicola, come il dottor Frankenstein (Danny Huston) e la consorte hanno dato vita a quell’essere: attraverso una stampante 3D.
Interessante il racconto di Adam in sottofondo, che aiuta a farci entrare tra le beghe intellettive del personaggio, creando un involucro di parole soddisfacente, seppur incompatibile con le sue reali capacità comunicative. Mostro (come si fa chiamare) ha coscienza di sé ma non sa divulgare i suoi sentimenti, non sa spiegare il bisogno di amore che lo affligge. Il suo volto è butterato, sfigurato, raccapricciante, in poche parole non adatto ad inserirsi in un mondo in cui si dà peso alla bellezza fisica.
Una nota di merito va data a Bernard Rose per aver tentato di cambiare volto al figlio letterario partorito dalla fantasia della Shelley. La timida emulazione di un’eventuale cucitura del cranio (che sembra palesarsi all’inizio) va in fumo immediatamente dopo. Forse questa è l’estensione più autentica della paura contemporanea: via i bulloni e la fronte sporgente a cui siamo abituati e avanti tutta con escoriazioni e ferite visibili capaci di rievocare un invecchiamento veloce, forse timore di questo tempo.
Nulla da ridire sulle doti interpretative degli attori, che però non bastano a salvare un film che stenta a decollare, annoverandosi tra i più macabri adattamenti cinematografici della suddetta opera. Dopo un inizio che aveva fatto presagire un’innovazione accattivante si viene letteralmente divorati dalla voragine del no-sense; tanti spunti accennati e mai portati a termine, per non parlare del finale eccessivamente fugace.
Siamo certi che il Frankenstein di Bernard Rose possa essere il primo passo per una chiave di lettura originale della storia e prendere posto tra le opere di adattamento più strambe, ma nel caso specifico risulta essere un esperimento mal riuscito, proprio come quello del medico di cui porta il nome. Affermazione che con la divinità è meglio non giocare, sia che si tratti di vita che di opere d’arte, il risultato potrebbe essere uno scherzo della natura!
Il film sarà al cinema dal 17 marzo 2016, distribuito da Barter Entertainment.