Race – Il colore della vittoria: recensione
Quando un film racconta la storia meglio dei manuali, questo è Race – Il colore della vittoria diretto da Stephen Hopkins. Siamo a pochi mesi di distanza dalle famose Olimpiadi del 1936 quando il Comitato Olimpico Americano è indeciso se partecipare o meno alle gare come segno di protesta contro il regime hitleriano. Le volontà tedesche sono chiare: nessun ebreo e nessun atleta di colore devono partecipare alla manifestazione mondiale che porta il segno di Hitler, niente e nessuno deve intromettersi tra la Germania e la sua supremazia. È proprio in questo clima che si inserisce la regista Leni Riefenstahl, interpretata da Carice van Houten (Melisandre di Asshai del Trono di Spade) chiamata per riprendere ogni singolo momento dei Giochi e immortalare la supremazia della razza ariana.
Ma in America, nella lontana università statale dell’Ohio si allena una giovane promessa, James Cleveland “Jesse” Owens (interpretato da Stephan James, già conosciuto come John Lewis in Selma – La strada per la libertà). Grazie al coach Larry Snyder (Jason Sudeikis) Jesse inizia ad allenarsi, a mettersi alla prova tra le tensioni razziali che subisce anche e soprattutto all’interno della sua università da parte dei suoi colleghi. Jesse però non ci bada, quando corre pensa solo a vincere e a oltrepassare i suoi ostacoli; il tutto diventa niente e il respiro, la corsa, la determinazione diventano tutto quello che Jesse ha per dimostrare a se stesso e agli altri che può farcela, che può vincere e diventare un esempio importante per tutti, non solo come atleta ma anche come uomo.
Race – Il colore della vittoria: una corsa per l’uguaglianza
Il ragazzo può contare sull’appoggio della famiglia e della sua compagna Ruth Solomon (Shanice Banton) che vive in una città diversa da quella in cui si trova il fidanzato e cresce la loro piccola bambina lavorando come parrucchiera.
Race – Il colore della vittoria racconta volontariamente solo una piccola fetta della storia di Jesse. Quello che è importante è contestualizzare le vicende dell’atleta per poterne capire l’importanza storica, e questa è una delle doti del regista che, avvalendosi di un’ottima sceneggiatura, fa entrare lo spettatore perfettamente nella vita del giovane atleta e nella doppia forma di razzismo che si trova ad affrontare: quella all’interno del college, e quindi della stessa America, e quella d’Europa, resa palese una volta che Jesse arriva a Berlino.
La stretta di mano negata a Jesse da Hitler, lo sfruttamento degli atleti tedeschi per dimostrare la supremazia della razza ariana, una regista chiamata a filmare ogni momento di celebrazione della vittoria tedesca con telecamere che ricoprono tutto il perimetro dello stadio (e volutamente coperte quando è Jesse a vincere) e un’amicizia nata proprio sul campo… In tutto questo, sembrano risuonare ancora le parole di Owens: “Le amicizie nate sul campo sono la vera medaglia d’oro. Le medaglie si ossidano e prendono polvere, la vera amicizia mai”. Ed è proprio questo l’aspetto più commovente del film che incarna il vero senso di competizione positiva all’interno dei Giochi Olimpici: l’amicizia di due atleti accomunati dal senso dell’umana appartenenza. Perché è con l’integrazione e il rispetto che si abbattono i muri hitleriani e i record mondiali, e il record di medaglie vinte in una sola Olimpiade da Owens è rimasto imbattuto per ben 48 anni, nonostante il riconoscimento del congresso sia arrivato solo nel 1990, ormai postumo.
Race – Il colore della vittoria vi aspetta al cinema a partire da giovedì 31 marzo distribuito da Eagle Pictures.