Re per una notte: recensione del capolavoro dimenticato di Martin Scorsese
Quando si passa in rassegna la straordinaria carriera di Martin Scorsese si è sempre pronti a ricordare Taxi driver, The Departed, Quei bravi ragazzi, qualcuno addirittura menziona lavoretti come The Wolf of Wall Street, ma quasi mai viene citato uno dei suoi film più riusciti e maturi: Re per una notte, commedia amara del 1983 che rafforza e rinnova il sodalizio artistico della coppia Scorsese-De Niro, dopo il successo di pubblico e critica di Toro scatenato, girato appena tre anni prima.
Rupert Pupkin (Robert De Niro) vuole diventare un comico costi quel che costi. Ha 34 anni e vive con sua madre in un seminterrato in cui prepara le battute che recita ad un pubblico di cartone ed inventa conversazioni immaginarie con Jerry Langford (Jerry Lewis), comico migliore del suo tempo, amatissimo dal pubblico e fonte di ispirazione per Pupkin che ha un vero e proprio culto della sua persona, troppo simile ad un’ossessione. Dopo essere riuscito ad entrare nella macchina di Langford, Pupkin si illude di aver trovato in lui un amico o almeno un alleato importante nella sua ascesa nel mondo dello spettacolo televisivo. Tuttavia Langford liquida Pupkin ed i successivi tentativi di quest’ultimo per rimettersi in contatto con il comico si rivelano puntualmente un fallimento.
Il film è stato del tutto ignorato dalla critica e le cose andarono anche peggio ai botteghini. Questo nonostante l’interpretazione superelativa di Robert De Niro che ha indossato il personaggio di Rupert Pupkin rendendolo inscindibile dalla sua persona. Invadente, logorroico e insistente, Pupkin suscita tenerezza, compassione e disprezzo allo stesso tempo. L’ossessione per la celebrità e il fanatismo rivelano la profonda ansietà dell’aspirante comico il cui desiderio, evidentemente, non è solo quello di far ridere la gente, ma di avere un posto nella vita degli altri. Rupert vorrebbe davvero essere amico di Jerry o sposare la bellissima cameriera Rita, diventando di questa il “salvatore” perché in fondo anche lui è stanco di essere un buffone che colleziona autografi di personaggi famosi inserendo tra questi anche la sua firma. Rupert sa che non dev’essere piacevole uscire con lui, percepisce l’imbarazzo e la diffidenza di Rita quando sono a cena fuori, capisce di essere una presenza inquietante e fortemente indesiderata fuori l’ufficio di Jerry. Ha dunque esigenza di stabilire rapporti autentici con chi lo circonda, ma la sua impazienza gli rende impossibile perseguire questo obiettivo in maniera pienamente soddisfacente, come vedere realizzata la sua ambizione di diventare comico: quando Jerry prima e la sua assistente poi gli consigliano di cominciare dal basso, facendosi conoscere in qualche locale lui spiega che data la sua età andare per gradi sarebbe un lusso che non è disposto a concedersi. È l’ambiguità a rendere il personaggio di Rupert un ruolo affascinante e difficile da interpretare. De Niro, attore da palcoscenico e caratterista d’eccezione, di sicuro è riuscito a vincere la sfida interpretativa. Già nella prima scena l’attore italoamericano riesce a far emergere il nervosismo e la concentrazione forzata che Rupert dissimula con gesti e atteggiamenti apparentemente dominati da una calma esasperante. De Niro si diverte a prenderlo in giro facendolo sembrare a volte una macchietta, ma dando il meglio di sé nei monologhi in cui Rupert, perso nelle sue fantasie, a sua volta interpreta Jerry e nella scena in cui Rupert si autoinvita con Rita da Jerry, per buona parte improvvisata.
Se questo film avesse avuto un po’ più di fortuna si sarebbe forse imposto come cult movie. Fosse anche solo per la comparsa di Martin Scorsese nei panni di un regista televisivo e dei The Clash, i quali interpretano un gruppetto punk che si intravede in un’inquadratura, definito da Marsha “feccia da marciapiede”. O per la sceneggiatura premiata ai BAFTA. O perché Jerry Lewis, uno dei più grandi comici statunitensi, interpreta qui un comico lontano dal palcoscenico e dai riflettori, quasi incapace di gestire il successo senza soccombervi, sprofondando nell’apatia e nell’indolenza e risultando straordinariamente credibile.
Anche Sara Bernhard fa un ottimo lavoro. Marsha, al contrario di Punkin, si presenta da subito come un personaggio abietto e addirittura pericoloso. È disumana e feroce nella sua isteria, irritante nei litigi con Punkin, inquietante anche lei quando confonde la sua ossessione malsana e morbosa, per un comico della televisione per un amore totale, quello che, addirittura, ha negato ai genitori.
Re per una notte – la critica velenosa di Scorsese al mondo dei media e al sogno americano
“You’re gonna love me, like nobody’s loved me” canta Marsha ad un Langford imbavagliato, riprendendo la canzone Come Rain or Come Shine di Ray Charles che all’inizio del film fa da sottofondo musicale all’immagine ferma di Marsha schiacciata al finestrino dell’automobile di Langford, quando era lei ad essere in trappola. “You’re gonna love me, like nobody’s loved me” è quasi una minaccia da parte di Marsha che vorrebbe essere ricambiata da Langford. “You’re gonna love me, like nobody’s loved me” è la promessa di Punkin al suo futuro pubblico ed insieme una supplica rivolta al mondo dello spettacolo di accoglierlo o almeno di dargli un’occasione.
Scorsese è velenoso nella sua critica del mondo mass mediatico, nevrotico e disumano, oltre che dell’ipocrisia del sogno americano che di fatto si è impossibilitati a perseguire, quando anche si tratti di un semplice progetto di vita. Interessante, in questo senso, la scena in cui un gruppo di produttori discute la strategia da utilizzare per evitare che Rupert vada in televisione facendo il suo spettacolo. Uno dei produttori, stupito dall’ottuso cinismo con cui gli altri stavano affrontando il problema, prova a far leva sulla loro moralità corrotta, invitando alla razionalità: “Non dobbiamo dimenticare che stiamo barattando la vita di un uomo con dieci minutu di chiacchiere alla TV”.
Testo di Francesca Menna