Buon compleanno Francis Ford Coppola: la straordinaria carriera del Padrino del cinema
Francis Ford Coppola ha segnato in modo determinante la storia del cinema, promuovendo diversi generi e stili condensandoli in quella che è stata definita la New Hollywood, di cui Spielberg, Lucas e De Palma sono stati i perpetuatori e fautori del suddetto linguaggio.
Il suo approccio al cinema è singolare, egli è il perfetto artigiano e ideatore di storie che accompagnano persone solitarie nei loro viaggi, quelle storie, quei paradossi in cui condensa anima, cuore e sangue e sostenuti da una tecnica ineguagliabile: è uno di quei registi che fa scuola, che determina con un’inquadratura, che stempera ogni disillusione con una frase, che demonizza anche le promesse più sincere: la sua cinematografia è una conversazione in atto da tempo e mai terminata.
Francis Ford Coppola: un viaggio all’interno delle migliori opere di una leggenda del cinema
Ineguagliabile è la saga del Padrino, che nacque dalla penna torbida di Mario Puzo e che Francis Ford Coppola rieditò e affiancò per la sceneggiatura di quello che sarebbe divenuto il suo immenso capolavoro. La trama era tutto fuorché scorrevole, un perenne sadismo ne frazionava l’intensità: l’intenzione di Coppola si confutava nell’esclusività del linguaggio, nel rapporto del Padrino con i suoi adepti, nella gestualità, nel distanziarsi dal gangster movie di Howard Hawks e a quello sguardo opaco sulla mafia d’importazione, senza mai crollare nell’iconografia d’emulazione. Il genere gangster che si compiaceva della sua stasi post depressione del ’29, subì uno scossone solo grazie ad un cambio di rotta nella trattazione della tematica mafiosa proprio grazie al romanzo in questione che per primo colse l’importanza di non sedimentare le scelte di potere, ma di dare ampio respiro e spessore ai rapporti tra mafia e stato, tra mafia e politica, tra mafia e famiglia e di come questi ruoli fossero quasi difficili da distinguere in alcuni istanti.
Insomma il gringos da assalto al pollaio o il ladruncolo per una notte era l’ignobile lascito che non avrebbe mai perpetuato e che lo stesso De Palma e Scorsese negli anni ’70 avrebbero contribuito a far risplendere senza riserbo. Ma parlando de Il Padrino la sua immensa fortuna deriva da più fronti: la scelta del cast con un Marlon Brando che incarna da solo l’epica irrisolta di un personaggio oscuro che carpisce e conosce l’uomo, le sue debolezze e le scelte che fa, il quale ha un potere sconfinato che dimora nella famiglia, un fanciullino macchiato di sangue che misura le sue decisioni con il sostegno di un consigliere senza eguali, interpretato da Robert Duvall, e che nel suo castello costruito tra tangenti e gioco d’azzardo, porta avanti con maestria e sagacia il sottile crinale che divide lavoro e famiglia, affari e complicità e tale rapporto, quasi un incesto lavorativo, lo pagherà a caro, carissimo prezzo.
Al Pacino è la conditio sine qua non della pellicola, il contrasto che fa scattare la molla filmica, l’unico residuo puro, con un’esigenza diversa e senza quelle cupe lungimiranze, figlie di una disappartenenza familiare e che presto o tardi lo vedranno inesorabilmente succube e partecipe, quasi in modo impetuoso e con una contingenza spaesante, seppur la sua presenza decisionale acquisisce un suono deciso solo dopo l’odissea siciliana e il suo rimpatrio. Il Padrino ha tutte le carte in regola per potersi definire un nuovo genere di epica post moderna, frutto di una geniale congiunzione tra antieroismo e poesia d’impasse, un’empatia spontanea si scatena e lo spettatore è rapito nel vortice del disamore per il prossimo da parte di chi in quel modus ci è nato e cresciuto come Sonnie, e della disaffezione in ascesa da parte di chi di quel mondo non ne ha mai voluto sapere, come Michael.
Michael è il personaggio che subisce il tempo e lo spazio più di tutti, non riesce a vivere in modo fluido e sereno all’interno della famiglia, è sempre segmentato in quella che si potrebbe definire la liturgia della morte, considerato che dall’inizio alla fine la pellicola racchiude i sacramenti in discesa, dal matrimonio al battesimo e alla morte stessa. Francis Ford Coppola non scade in forzature o disarticolazioni sceniche deprecabili, anzi, quella temporalità a frammenti che recide la storia senza mai dividerla veramente trova il suo paradigma nella scena finale, in cui giustizia e vendetta confluiscono uno dentro l’altro, come anche sacro e profano, prolessi e analessi, simbolismo e blasfemia.
Se ne Il Padrino Francis Ford Coppola cercava il confronto, l’empatia tra personaggi e un certo tipo di continuità d’azione, ne La Conversazione ciò non accade, poiché sposta la cinepresa su di un personaggio profondamente disturbato, sì geniale ma con le patologie derivanti dall’ossessione per la privacy: Harry Caul (Gene Hackman) è un esperto di intercettazioni che guarda con discrezione in fondo all’abisso con il terrore di poter essere guardato di rimando, vive in un Grande Fratello perenne e dal quale non potersi ridestare, in cui intercettatore e intercettato combaciano perfettamente.
Francis Ford Coppola ritrova un po’ la gloria del thriller cospirativo, e il protagonista è talmente tanto vulnerabile e testimone dei suoi tradimenti che è quasi impossibile protendersi o immedesimarsi in un uomo dalla personalità in deterioramento: un uomo in totale asservimento per la tecnologia, ne abusa per servirsene ed infiltrarsi, a volte involontariamente, nelle vite altrui.
La vera conversazione avviene tra il suo senso di colpa e la sua coscienza, unica e vera interferenza sia filmica che discorsiva e pur non ottenendo un sedimento reale nel quale redimersi e scontrarsi con i propri errori, fa di tutto per rivoltare la sua visione o meglio la sua conversazione interiore per riproporne una più apprezzabile con quale integrare la sua percezione di realtà. Questa pellicola è una critica, un pretesto per indagare sull’uso della tecnologia e sul peso che ha nelle vite delle persone comuni e non, non riesce e non può giudicare ognuno di noi e di come siamo stati portati a servircene, l’interesse reale del regista è nell’invasione, nel sentirsi sempre scrutati, il protagonista è fisicamente solo, ma si ha la sensazione che qualcosa lo segui sempre: la cinepresa è un passeggiatore solitario, non coniuga quella persecuzione in modo attivo, Coppola è in stato di grazia registico che gli permette di non intercedere nella narrazione in modo da scontrarsi egli stesso con il senso paranoide della pellicola.
In ultima istanza da ricordare in modo determinante è Apocalypse Now, in cui Francis Ford Coppola dirige un’irriconoscibile ed epocale Marlon Brando attraverso una pellicola in cui è tutto saturato: i colori, le emozioni, la civiltà, la natura, il regista getta ombra sulle menti dei personaggi traendo ispirazione dal romanzo di Conrad, Cuore di Tenebra. Il Vietnam è un corpo corroso e la guerra che lo devasta è il suo falso mito. Il colonnello Kurtz ne conosce ogni monade, sa cosa si cela dietro quell’infausto mito di liberazione e non cerca mai di mentire, o di dichiararsi migliore di quello che è.
Francis Ford Coppola assieme a Milius sacrificarono qualsiasi gusto per la drammatizzazione dei personaggi, che sono quasi in interferenza l’uno dall’altro per soffermarsi maggiormente sul singolo, sull’individuo, sul Vietnam, sulle musiche, che urlano lo sgretolamento di qualsiasi speranza: le immagini vengono parafrasate dai volti, dagli uomini o meglio dall’uomo che è il solo essere che potrebbe cambiare le sorti di un mondo che è caduto nell’orrore dell’inevitabilità della morte e dell’omicidio come un atto necessario, così da giustificare il vero senso di apocalisse psichica e umana che i personaggi subiscono senza poterne schivare le brutture e superarne le accidie.