Barry Lyndon: recensione
Barry Lyndon, il capolavoro di Stanley Kubrick del 1975, torna a rivivere nelle sale. Esce lunedì 12 in settanta cinema, nella versione restaurata dalla Cineteca di Bologna.
Chi non ha nella memoria il volto di Ryan O’ Neal nei panni di Redmond Barry, l’avventuriero che non voleva essere un irlandese qualunque a casa sua e visse pericolosamente fino a raggiungere il colmo dello splendore aristocratico per poi perderlo rovinosamente, finendo lacero e randagio tra i tavoli da gioco d’Europa.
Leggendario, magnifico e sontuoso film di uno dei più grandi cineasti di tutti i tempi. Oggi non ci sono dubbi sul fatto che sia un capolavoro assoluto, nessuno lo trova più freddo e noioso come un libro di fotografie sulla pittura del XVIII secolo. La prodigiosa abilità nel giocare con la luce, che gli riconosceva il regista Paul Mazurski, suo attore in Fear and Desire, gli ha permesso di “illustrare” il mondo del romanzo di William Thackeray. Il documentario della Warner Bros. Stanley Kubrick: A life in pictures di Jan Harlan racconta come riuscì ad immergere così profondamente un’arte del presente nella luce del passato. “Cercò le vecchie cineprese Mitchell BNC per montare un obiettivo Zeiss progettato, sviluppato e costruito per la NASA, che aveva intenzione di usarlo per scattare foto dai satelliti. Un obiettivo molto veloce, con la straordinaria apertura f/0.7. Voleva utilizzarlo per girare le famose scene a lume di candela.” Le fiammelle delle candele per far luce sull’oscurità e sulla banalità della storia sono solo un aspetto dell’estetica di Barry Lyndon, anche gli interni, il modo in cui la luce illumina le stanze è ispirato alle raffigurazioni dei pittori dell’epoca. “Tutto per ottenere la presenza in un periodo (storico) in un modo in cui nessuno aveva mai fatto prima. Milena Canonero: nei costumi voleva ricordare certi pittori dell’epoca – Stanley mi mandò in tutte le case d’asta che trattavano costumi del periodo. È il più bel film del XVIII secolo. – Il film fu definito tedioso dai critici in America e in Inghilterra ma in Europa fu osannato come un film di straordinaria bellezza.”
E’ vero, il film è freddo ed elegante, pieno di equità e di verità sull’anarchia sanguinosa della guerra e sulle fortune che vi si possono sfacciatamente cogliere. “Ma, pur essendo Redmond Barry (Lyndon) il personaggio riassuntivo del cinema di K., il film non è tanto su di lui, quanto proprio sul Settecento, sul Barocco, sulla Storia. Dopo la vaga utopia metastorica (o Storia di qualcosa che non sarà più “uomo”) di 2001, dopo la disperata sarabanda di vitalità spettacolare di Arancia meccanica, dopo aver mostrato i segreti agghiaccianti delle avventure dell’occhio, K. affronta la Storia a partire dalla camera rococò di 2001, precipitando il pubblico in una nuova avventura visiva.” (Enrico Ghezzi – Stanley Kubrick – il Castoro Cinema). E, ancora Ghezzi: “Nella pratica della realizzazione filmica (…) si traduce (…) in una freddezza e distanza dal racconto che, pur avendo compiti particolari e fondanti, è utilizzato allo stesso modo di una scenografia o di un’illuminazione o di un’aria musicale o del gioco recitativo, cioè come (primario certo) elemento di comunicazione e non come “ciò che è da comunicare”. K. non si mette al servizio di una storia né si abbandona al piacere di raccontarla, e in tal modo si distacca radicalmente dalla tradizione del cinema americano. Per lui il racconto è solo un primo “schermo” sul quale proiettare il film vero e proprio.”
Il romanzo di Thackeray è la storia di un uomo senza morale che partendo da umili condizioni riesce a scalare la vetta sociale dell’aristocrazia attraversando due eserciti e barando ai tavoli da gioco.
foto tavolo da gioco
Non è un eroe, non ci coinvolge nelle sue imprese, gli sviluppi della sua carriera hanno luogo fuori dallo schermo e la voce fuori campo ci informa di cosa sta per accadere sempre un po’ prima. Kubrick ha diretto Ryan O’Neal facendone un personaggio neutrale o passivo rispetto a qualunque evento. Pare sempre sul punto di piangere, che perda una donna o vinca in duello non rivela mai grandi emozioni. L’unico grande dolore che lo attraversa e lo devasta è la morte del figlio Brian caduto da cavallo. Per il resto è un uomo sempre calmo, confuso e senza speranza, a cui le cose accadono e basta. Neppure gli altri personaggi brillano per la loro personalità, dal Capitano Quin (Leonard Rossiter), che sviene anche nel duello finto, a Lady Lyndon (Marisa Berenson) che non brucia mai di passione. Una storia banale da qualunque punto la si osservi: ascesa e caduta di un uomo qualunque, eppure Kubrick la colloca all’interno di una cornice da cui è impossibile staccare gli occhi e non c’è altro modo di guardarla che il suo. “Le Memorie di Barry Lyndon” avrebbero anche potuto fornire una storia avventurosa e romantica, a partire dall’amore giovanile per la cugina Nora Brady, che costringe Barry al duello e poi a lasciare la sua casa improvvisamente; derubato ed arruolato forzatamente nell’esercito britannico si guadagna la stima dei commilitoni come elegante pugilatore; combatte in Europa, vive amori passeggeri, diserta e viene catturato; per non essere fucilato si arruola nell’esercito prussiano, compie un atto eroico, viene assunto come spia del governo, si allea con l’abile giocatore che deve sorvegliare e ne impara i trucchi; sposa, infine, una nobildonna bella e ricca, la tradisce e la ritrova, fa un figlio con lei, lo perde, si perde perché non ha abbastanza carattere per resistere, eccetera, eccetera. Tutti ingredienti che Kubrick tratta con distacco, non li usa per costruire alcuna suspense, li demolisce, anzi, servendosi del narratore. Barry è come Hal 9001 che si sforza di resistere e prevaricare gli altri in 2001, che sia un soldato, un truffatore o il marito di Lady Lyndon e non un computer poco importa.
Lo spettatore viene tenuto a distanza dallo stesso Kubrick, che annulla ogni tensione emotiva nella trama ed usa scenografie, costumi e fotografia, articolata in successioni di immagini perfettamente ispirate alle opere pittoriche del periodo, per introdurlo a personaggi ed ambienti come erano realmente nel Settecento. Ispirarsi profondamente all’Arte, come in Arancia Meccanica con la Pop- Art, ha reso in questo film scene così coinvolgenti da far credere che si tratti di un documentario. “L’aspetto immediato del film di K. è proprio quello del libro di illustrazioni, non a caso a forma di espressione tipicamente settecentesca (e inglese). La Storia comincia dai quadri, in alcuni casi la storia stessa è prodotta da essi: Ryan O’ Neal ha il volto di un ‘marito libertino’ di Hogarth, la Berenson è identica alla moglie di Gainsborough in un quadro alla Tate Gallery, e gran parte delle inquadrature sono riconoscibili in opere pittoriche del settecento inglese e non (…). K. prende ironicamente sul serio l’utopia di un cinema che voglia essere “storico” e quella del cinema “in costume”, portandole alle estreme conseguenze.” (sempre Ghezzi nell’imperdibile castoro Kubrick)
I riferimenti iconografici rendono le ambientazioni e i paesaggi quasi una ricostruzione archeologica del passato. Uno dei pittori cui attinge di più è il paesaggista John Constable, i cui quadri sono una importante fonte storica, a lui sono riconducibili le inquadrature di residenze e parchi; a Joshua Reynolds quelle degli interni; un altro modello è George Stubbs, a cui Kubrick si riferisce per le scene equestri, quella in cui Barry compra il puledro al figlio. Pittori non solo inglesi, come lo svizzero Johann Heinrich Fussli, la scena in cui Lady Lyndon si accascia dolorante sul letto è ispirata al suo “Incubo”.
Barry Lyndon è uno dei più bei film mai realizzati, ma la bellezza di Kubrick non è al servizio di un rubacuori truffaldino e delle sue avventure, è nella visione, nel retrocedere nella memoria e nel tempo, nel farsi sguardo puro sulla Storia.
Vinse quattro oscar: scenografia, costumi, fotografia e musica. Non fu un successo commerciale al tempo, pur essendo costato 11 mln di dollari, e a pesare al botteghino non furono le tre ore di durata o la mancanza di azione, fu più l’assenza di ottimismo, forse, il non aver dato un’occasione cinematografica di pietà alla rovina irreparabile di Redmond Barry.