Stonewall: recensione
Dopo Suffragette, un’altra minoranza nella storia rivendica dopo quasi cinquant’anni i suoi diritti e il cinema, aiutato dal regista tedesco Ronald Emmerich, ne riprende fatti e imprese, urla e lacrime, con Stonewall: i moti che spinsero un gran numero di omosessuali a ribellarsi contro le catene dell’ingiustizia si fanno pellicola per ricordare le vessazioni e gli abusi subiti, per far sì che il coraggio di pochi diventi memoria di molti, per non trascinare nell’oblio l’ardire che ha cambiato un pezzo del passato.
Lasciata la città natale e recatosi nella grande e confusionaria New York, Danny (Jeremy Irvine) sfugge da un padre intransigente e da uno sfortunato episodio, incapace di tollerare ulteriormente i rimproveri del genitore e gli sguardi irrisori dei compagni. Affacciandosi gradualmente alle novità che ha da offrire la Grande Mela, il ragazzo si ritroverà immerso nei vezzi e nelle difficoltà di un gruppo di giovani gay allo sbando tra serate al ritmo di “Venus” delle Bananarama e lavori scomodi ma necessari, personaggi sbandati sempre con la battuta pronta e pacchetti di sigarette rubati nella borsetta. Legatosi alla diva Ray (Jonny Beauchamp) e al politicamente attivo Trevor (Jonathan Rhys – Meyers), inizierà per Danny un nuovo capitolo della sua vita che lo porterà fino alla svolta di Stonewall.
“Gay is good” – Quando è necessario alzare la voce
“Gay is good”, eppure c’è voluto così tanto per capirlo. Ed ancora oggi si combatte per lasciare che la gente comprenda. Purtroppo però per mostrare agli altri che il diverso è buono non sempre basta confrontarsi. No, a volte è necessario alzare la voce. E così hanno fatto i paladini di Stonewall, in quegli anni non troppo lontani da noi, dove sentiamo riecheggiare la stessa avversione che continua a serpeggiare tutt’oggi per le nostre strade. Eppure il racconto cinematografico si dilata nell’arco narrativo a lui dedicato, si prolunga fino a sfaldarsi, lento nella realizzazione e poco serrato; insieme di avvenimenti e controversie che finiscono per saturare un film che poteva regalare tanto. In un convenzionale svolgersi degli eventi, Danny è il tipico ingenuo lontano dal nido che si lascia coinvolgere dall’atmosfera frizzantina di una New York frequentata dalle “regine della notte”, sognatori sventurati degli anni Sessanta sfavorevolmente rilegati alla reclusione, colpevoli soltanto di amare qualcun altro del loro stesso sesso. Costretti per questo a nascondersi o a vendere il loro corpo, sarà il desiderio di sentirsi ed essere finalmente riconosciuti come persone a muovere i loro animi, con una repressione che sfocia in caos e riconquista violenta del proprio sé. Ma la formula adottata da Emmerich (regista conosciuto per The Day After Tomorrow – L’alba del giorno dopo, 2012, Anonymous, Sotto assedio – White House Down) sembra non funzionare appieno, debole di una struttura solida su cui giostrare un insieme di personaggi borderline che, seguiti fin nel loro inferno personale, fanno perdere completamente il fulcro portante del film, ossia la lotta estenuante per il raggiungimento di pari diritti civili.
Perfetta scenografia e ottimi costumi per Stonewall, cornice convincente di un film fiacco e reso in modo scontato cadendo inevitabilmente nel piatto, la frivolezza degli anni a cavallo tra i Sessanta e il Settanta che surclassa purtroppo un messaggio di forza e uguaglianza, occasione persa per portare sul grande schermo il cambiamento che influì nella storia di una realtà che ci riguarda. Non pessima è la prestazione degli attori, con uno sbarbato e smagrito Jonathan Rhys – Meyers, un Ron Perlman ovviamente cattivo, ma soprattutto un protagonista, Jeremy Irvine, che in veste vintage patinata, con tanto di ciuffo biondo, riporta alla memoria un giovane Patrick Swayze. Tra flashback e presente, raid in locali notturni e vera amicizia, con Stonewall si ripensa alle potenzialità del film e ci si dispiace, augurandosi che nelle prossime volte non vengano sprecate tali occasioni.