Cinema e maternità: un rapporto incestuoso da Vittorio De Sica a Hitchcock
Il cinema ha rappresentato a volte in modo marginale e lapidario le sorti e le sembianze della maternità ed in genere del rapporto irrazionale e impulsivo che si va ad instaurare tra madri e figli. Ma, per nostra fortuna, la cinematografia è sempre in evoluzione, in divenire, e non ha mai smesso di serbare figure femminili epocali: certo, alcune non avranno avuto ruoli centrali e dall’ampio respiro, e proprio grazie al talento di straordinarie attrici che hanno saputo regalare personaggi indimenticabili, spesso opacizzati crudelmente, che ad oggi possiamo ricordare con vividi colori quei ruoli che sono oramai monumenti filmici, le cui pellicole continuano a custodire e sublimare. In prima istanza è doveroso precisare che non tutte le pellicole, com’è giusto che sia, affrontano la tematica della maternità con la stessa cautela, non si parla solo di madri amorevoli, servili, immortali, ma anche di madri paranoiche, ossessive, languide, colpevoli, imprudenti, un modo di diversificare l’idolatria che ha pervaso la cinematografia per parecchi anni e che non ha permesso che se ne parlasse con la giusta cadenza, il giusto peso oscuro che la famiglia, fulcro centrale dell’idealismo fascista, andò ad implicare e a determinare generazioni intere, offuscate, corrotte e disorientate da una figura di una portata abissale.
Proprio in virtù di questo che Anna Magnani e Sofia Loren diventano la necessità assoluta di una narrazione silente, figlie della resistenza e padrone della sopravvivenza, interporranno ai loro bisogni sempre e comunque quelli familiari, donne che osano, che non sanno ma che apprendono, che sbagliano e che pagano col dolore e l’amore per la rinascita, Mamma Roma e La Ciociara sono i nostri imperi, le nostre linee guida, ed è sempre giusto che quei fotogrammi alberghino nelle nostre coscienze, perché non sono solo il simbolo di una strada da percorrere, ma detengono l’imprudenza della felicità e il fascino della sconfitta.
Come la Ciociara di Moravia esistono esempi straordinari di film ispirati dalla letteratura di ogni tempo, quali La Lettera Scarlatta o Medea, rispettivamente di Nathaniel Hawthorne ed Euripide. La prima una donna e poi madre, mortificata, derisa, vinta dai soprusi e lapidata dal peso del suo presunto adulterio, la pellicola in questione è per la regia di Victor Sjostrom del 1926, mentre Medea è l’indimenticabile opera filmica di Pier Paolo Pasolini, in cui Maria Callas presta volto e anima ad una delle figure più controverse della letteratura di tutti i tempi. Medea è una donna tradita, ma colpevole del suo stesso sentimento, carnale e vendicativa: i classici sono sempre avanti mille anni e mille ancora. Sventurate e ripudiate dalla società sovvertono le loro sorti l’una con l’amore per la propria libertà, l’altra con la tragicità del proprio potere.Esempi di maternità che possono apparire lontani anni luce dalla nostra contemporaneità e invece trattengono un realismo immortale, vero tanto ieri quanto oggi.
Diverso è per due classici dell’horror che in quanto ad aderenza col reale noi tutti speriamo di non raffrontarci mai con due simili casi di claustrofobia d’appartenenza. Uno è Psycho. Cosa dire? Norma Bates è il vuoto edipico, ineliminabile e inarrestabile: la sua voce, le sue paranoie, le sue volontà vengono perpetuate attraverso Norman che diventa l’unico interlocutore dei suoi dissidi, quella mancanza non verrà mai colmata e andrà a palesarsi nella follia omicida, intermediaria di un lutto disatteso e inaccettabile. Altro punto chiave in linea con Psycho è Rosemary’s Baby, intramontabile pellicola di Roman Polanski che gravita attorno ad una donna il cui unico desiderio è diventare madre, che porterà avanti la sua gravidanza puntellata di stregonerie, macabri sotterfugi, accordi nefasti, sogni diabolici. Tutta l’anima torbida di Polanski trova colore nei fotogrammi di questo film che nonostante le insidie e il terrore lascia un piccolo spiraglio di innocenza che fa in modo che il film non si blocchi nei suoi slanci demoniaci, Rosemary è una donna carica di speranza, fiduciosa, pura che si piega ad una condanna devastante e viene costretta a concepire un essere non suo per il quale combatterà fino alla fine.
Due meraviglie del nostro secolo che hanno indagato realmente del loro rapporto di genere con la figura materna sono Xavier Dolan e Guillaume Gallienne: il primo ha superato qualsiasi aspettativa raggiungendo vette altissime con Mommy, una pellicola da assaporare e assorbire in modo frenetico, cannibalico. L’altro ha conquistato pubblico e critica con Tutto sua madre in cui deforma e ironizza il suo ruolo e l’importanza del clamore materno e della sua dimensione come figlio e prole di un essere speculare e antitetico, paradigmatico e fagocitante. Entrambi esempi di come si possa crescere con un pilastro che sorregge e distrugge, rivelatore e opprimente. Mommy crede nella diversità dei tratti caratteriali, per quanto Steve sia un personaggio evolutivo e involutivo un po’ per natura un po’ per conseguenza, la pellicola urla, sbraita continuamente i propri sentimenti, le emozioni non sono scanzonate o sospirate ma senza fronzoli, sputate in faccia, un pugno nello stomaco, uno schiaffo in pieno volto, le emozioni sanno colpirci sempre in modo diverso e impressionante, senza fiocchi e vezzeggiativi culmina sviscerando fin da subito il rapporto madre-figlio, incompleto, incontenibile, due elettroni che si attraggono e si respingono.
In conclusione si potrebbe citare i tanti film notevoli restanti della tematica in questione ma invece è più interessante soffermarsi su uno in particolare, declassato e trincerato dalle angustie della critica, che ha saputo cogliere quella complessità che altri non hanno saputo raggiungere così bene: The heart is deceitful above all things, ovvero Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa. Ebbene si, Asia Argento si misura con un libro dapprima molto intimo, che verosimilmente o no riesce a riportare a galla stracci, contusioni, schegge e traumi, irrisolti e sanguinanti, è talmente complice del male che genera che ti abbraccia e ti abita, ti affianca nelle sue sventure. Asia Argento dirige e recita la maternità più logorante, e suo figlio Jeremiah subisce i continui abbandoni, i soprusi da parte della famiglia, credente e bigotta, e la condotta delirante della madre, che non riesce a fermarsi, a decidere, non ha accenti o congiunzioni che ne leghino le azioni o i pensieri, vive del suo frastuono, l’incapacità di essere donna, madre, figlia, compagna e di dover convivere con le conseguenze di tutto ciò.
Le madri della cinematografia sono immortali e diverse l’una dall’altra, l’unico modo per poterne mostrare le caratteristiche e poterne parlare realmente non è costruendoci storie epocali o kolossal incredibili, ma persuadendo il pubblico che ognuna di quelle donne ha una sua verità, una dimensione credibile, anche se delirante o maledetta, non importa.