Roberto Rossellini: la macchina da presa, la verità
Roberto Rossellini, il pittore del neorealismo cinematografico italiano, nacque l’8 maggio del 1906, 110 anni fa. Il suo cinema è cinematografia pura, le pennellate tramutate in immagini hanno tinte vere, capaci di fare male, di toccare corde emozionali talvolta nascoste, ma allo stesso tempo di farsi ricordare bene, di divenire indelebili nella memoria. Roberto Rossellini ha avuto una carriera densa, si è dedicato a tanti aspetti artistici e pratici della produzione audiovisiva, ha espletato una poetica e una tecnica tout court, spaziando dal cinema alla televisione. Ma il suo rapporto con la macchina da presa? Che uso privilegia? Innanzitutto ai fini del ‘realismo’ come cardine imprescindibile della sua estetica cinematografica c’è da dire che i movimenti di macchina risultano vincenti, mai banali e sempre funzionali al punto giusto. Rosselini, prima di ogni cosa, ci teneva particolarmente alla rappresentazione totale di quello che possiamo definire il ‘fatto’, l’episodio capitale intorno al quale si snodano le vicende della narrazione arricchite da aspetti emozionali fondamentali. Ad esempio, risulta calzante come in Roma città aperta – capolavoro del 1945 interpretato Anna Magnani e Aldo Fabrizi – ci sia l’inquadratura sui ragazzini che richiamano con un fischio l’attenzione del prete prima della fucilazione. Rossellini ha avuto l’inventiva, divenuta poi pregio, di rendere i movimenti della macchina da presa esplicativi di quello che era il ‘fatto’ o l’immagine da raccontare. Il regista si è sempre tenuto ben lontano dalle logiche americane del cinema di Hollywood (un cinema che ha ritenuto tradizionale, commerciale e – in parte- mistificatorio) e ha ritenuto sempre che fosse ciò che si narra ad adeguarsi ad un ritmo di inquadrature e non il contrario. L’arte di creare una bella inquadratura, volta a determinare la riuscita di una buona scena, secondo Rossellini, non si poteva imparare: o ce l’hai dentro o non ce l’hai. Si parte da un primo piano dell’attore e si allarga la visuale sulla sua persona e sui suoi movimenti in modo più o meno complesso, scoprendo l’ambiente che lo circonda insieme a lui. La macchina segue il personaggio anche negli esterni con piani-sequenza e con movimenti senza stacchi, per conferire un senso di comoda fluidità. A tal proposito Roberto Rossellini utilizzerà, per lo più per i suoi lavori televisivi, la tecnica del ‘pancino’: combinando una lunghezza focale variabile tramite lo zoom all’uso del carrello, senza dover necessariamente intervenire con gli stacchi.
La tecnica cinematografica di Roberto Rossellini: la macchina da presa come microscopio per indagare l’interiorità dei personaggi.
La tecnica usata da Rossellini ha un aspetto che da puramente estetico e visivo diviene simbolo di quella che è la carta vincente dei suoi film, quello per cui viene riconosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, il valore morale. Con la macchina da presa divenuta ‘microscopio’ Roberto Rossellini entrava nella testa dei personaggi, per inquadrare i pensieri, per scandagliare l’anima nella sua intimità, per scavare nei tormenti. Rossellini tramite la cinepresa costruiva un occhio di cui servirsi per ottenere un’osservazione scientifica, per lui questa era la vera funzione del cinema. Stiamo parlando, nella fattispecie, di una concezione di particolare levatura culturale, in cui il regista evolve il pensieri in diversi momenti della propria vita e carriera. Infatti la sua attività ha vissuto tre fasi: neorealista, psicologico-esistenziale (principalmente quelli con Ingrid Bergman), storico-didattica (quest’ultima espressa nei lavori per la televisione).
In generale, ma soprattutto con maturità e consapevolezza, ha creato immagini pure che non necessitavano per essere comprese fino in fondo di parole esplicative e dove si cumulano un numero enorme di informazioni. L’utilizzo del dettaglio e del piano sequenza servivano per introdurre messaggi con cui ognuno può avvicinarsi alle cose secondo la propria natura. Lo spettatore dei film di Roberto Rossellini è libero di scegliere, il montaggio è soppresso poiché si passa dal dettaglio al totale in modo naturalmente sequenziale.
Se lo volessimo confrontare con un altro autore della sua epoca come Vittorio De Sica, risulta lampante come, pur nella stessa corrente generale di pensiero (anche se i veri cinefili e amatori del cinema italiano sanno benissimo che il neorealismo è tale grandezza proprio perché fulcro di diverse mentalità e esiti talvolta opposti) i movimenti della macchina da presa abbiano caratteristiche totalmente differenti. Nei film di Vittorio De Sica – e in particolar modo quelli sceneggiati con Cesare Zavattini – è il surrealismo che vince, talvolta in modo strambo ma quasi sempre pulito e convincente. De Sica, data anche la propria esperienza di attore, procede in funzione documentaristica, più tradizionale. Dove Rossellini muove in modo ardito e autoritario (si dice che la Bergman lo rimproverasse: ‘ Tu mi dici sempre di camminare!’) , De Sica accompagna dolcemente, con cura di non gettare il personaggio in pasto agli occhi della spettatore, che invece era il dichiarato intendo di Rossellini. Queste caratteristiche antitetiche li rendono entrambi autori coscienti dei propri mezzi, in grado di andare oltre la tecnica, oltre la politica, oltre le polemiche.
In Roberto Rossellini comunque, in tutto il suo modo di fare cinema, di creare immagini, incombe in modo chiaro un discorso di tipo politico: la tecnica realista è specchio di una caratteristica italiana che vede il paese intero legato, anche fin troppo, alle cose, in modo morboso, parossistico. Da qui si giunge a quella funzione energica che lo ha portato ad indagare sui ‘fatti’ e a rendere le immagini idonee a quello che, in fin dei conti, rimane pur sempre un racconto.