Pedro Almodóvar: un viaggio attraverso spazialismo e dissoluzione
Pedro Almodóvar è un regista frammentato eppure integro, ha concentrato i suoi discorsi visivi sul senso dello spazio, sull’individualità, su come perderla, su come acquisirla, sull’universo femminile e i suoi sedimenti, le menzogne, un coacervo di osservazione e idolatria. Le sue pellicole sono stanze messe a soqquadro, accedervi è disarmante, accecante, i colori e il frastuono dei ricordi che cadono dagli scaffali ti sommerge, un nodo difficile da svellere.
Mirabile omaggio alle donne come genere non solo in essere ma in divenire è Tutto su mia madre, che gli valse l’Oscar per il Miglior Film Straniero, un modo del tutto armonico e monumentale di descrivere il dolore, l’attesa di una sua espiazione, la sopportazione senza crollare nel pietismo. Le figure maschili sono alienate, quel vuoto paradossalmente viene colmato totalmente dalle donne e ad esse viene dedicato tutto il senso di una pellicola che tende verso di loro, volutamente e non. Gli uomini non rappresentano se stessi ma un archetipo differente, come il padre di Esteban che cambia sesso diventando poi Lola; questi personaggi si inseriscono nel mondo grottesco, ironico e altamente tragico di Almodovar in cui l’estraniamento di un individuo è un passaggio necessario proprio per poter accogliere la propria vera natura lacunosa e disgregata, donne o uomini che siano. Le donne di Tutto su mia madre, donne come Huma, Agrado, Nina o Manuela sconvolgono e scompaginano le loro esistenze semplicemente rispettando ciò che sono, o meglio ciò che sentono di essere: accudire le persone, auspicare all’autodistruzione, mentire, vantarsi, ironizzare o occultare le proprie menzogne sono i modi che hanno, le uniche armi, per poter condurre una vita senza ostacoli da parte degli uomini. Pedro Almodóvar si chiede cosa possa significare essere davvero una donna, è sempre una fuga, è anarchia, è sopportazione, è morire tutti i giorni, è dissoluzione, allo stesso modo affronta l’argomento ecclesiastico sempre con toni aspri, rudimentali in cui si misura in un mondo di suore e di preti corrotti, tossicodipendenti, radicali, peccatrici e peccatori.
In linea con le immediatezze di questa pellicola si inserisce Volver, un tempio senza barriere, al quale si accede senza filtri: tutto è puro, spontaneo, i personaggi sono nudi, sofferenti ma energici, non temono di crollare, non c’è negazione ma voglia di riscattarsi, desiderio di capire, migliorare soprattutto nelle avversità più controverse. Raimunda (Penelope Cruz) inizialmente è avulsa da ogni empietà o frattura, i suoi occhi e i suoi gesti sono i suoi modi migliori di raccontarci le sventure, sono le sue attitudini più grandi, e il rapporto di disgelo e collisione con sua madre Irene è un vortice irrisolto, il tutto plasmato dai toni espressamente barocchi ed eccessivi, i colori sono lanciati sulla tela in modo crudo, le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio, determinate da una spazialità circoscritta alle mura domestiche, come fulcro di ogni ricordo e di ogni dolore. Gli omicidi insabbiati, i ritorni, i dubbi, sembrano succubi di un’allucinazione, lo stesso spettatore è spaesato, la pellicola non convince mai in ciò che sta mostrando, poiché la cosa che ci si chiede è se la presenza della figura materna sia presente come ricordo o sia una menzogna perpetuata. Non si è mai sicuri di quel ritorno, come se fosse un desiderio insito dell’essere umano, un eterno ritorno da parte di tutti, della stessa pellicola ad una ricapitolazione, come se ci si riappropriasse dei propri ricordi, offuscati, resi opachi dal tempo, dal rifiuto di un abbandono o da un evento infausto. Gli uomini anche qui sono ancora una volta una presenza minore, anzi qui si parla molto più di uomini di quanti poi siano presenti realmente. L’unico è il marito di Raimunda, un essere che serba solo impulsi, istinti carnali e tutto il degrado dei suoi detriti. La molla filmica scatta attraverso due eventi: la morte della zia Paula e la morte del marito di Raimunda. Due eventi che andranno a rappresentare gli errori del passato, quelli di sua madre Irene e verso i quali lei incorrerà di conseguenza, in un modo provvidenziale, quasi irreale e il distacco dalle persone amate che avviene senza percezioni o presentimenti. E la madre di lei, che tutti credono morta in un incendio, il suo ritorno, farà innescare tutta una serie di ricordi e di memorie seppellite sotto metri e metri di terreno che andrà a rivangare un passato mai totalmente messo da parte, che è impossibile da dimenticare, un mondo dal quale siamo attraversati e abitati eternamente. Espiare le proprie colpe sembra avere un prezzo molto alto da pagare, non ha sconti e Penelope Cruz nel mostrare i suoi conflitti è straordinaria, è sublime quando piange per la scoperta di una nuova possibilità con la madre, scopre di essere fragile, di non aver mai potuto realmente farcela da sola, scopre le sue vere debolezze, scopre di nuovo di avere una voce, di avere un dolore, di avere una violenza, di avere dei fantasmi. Una porzione della sua esistenza era serrata, bloccata dalle incompiutezze, il ritorno più o meno reale della figura materna rimette tutto in moto.
Pedro Almodóvar è diventato sempre più manifesto di una purezza poetica, a volte scarna ma immediata, uno spazialista emotivo, che dilapida ogni sentimento, dissipa tutte le efferatezze dell’essere umano, apologetiche e critiche, come ne La Mala Education o ne La Pelle che abito dove c’è solo acrimonia, cinismo, amore per il cinema e denuncia di uno sfogo, che possa anche essere figlio di una riflessione o di un bisogno; nelle sue pellicole ci si diverte e si coglie labilmente quel suo umorismo sempre un po’ tetro, la sua necessità inesorabile di simbolismi e di lasciarli sagomare dai ricordi, è esso stesso il riflesso di una società non sempre rappresentativa, i suoi topoi non sono ripetitivi o insistenti ma edificanti, uno sguardo al futuro e al passato determinato a recuperare l’intimità perduta, comunicando solo con parole sanguigne.