Cannes 2016 – La ragazza senza nome: recensione del film dei fratelli Dardenne
L’ottava giornata di Cannes 2016 si è aperta con la proiezione stampa del film di Jean-Pierre e Luc Dardenne, La Fille Inconnue (La ragazza senza nome), In Concorso nella Selezione Ufficiale del Festival. Un cinema sociale, quello dei fratelli di origine Belga, basato sulla volontà di portare alla luce le numerose e spesso complesse sfaccettature di fenomeni quali la disoccupazione, l’emarginazione e l’immigrazione.
Due volte vincitori della Palma d’Oro (con Rosetta e L’Enfant – Una storia d’amore), la loro ultima partecipazione alla kermesse francese risaliva a solo due anni fa, quando raccolsero il plauso di pubblico e critica con Due giorni, una notte, che valse una nomination agli Oscar come miglior attrice protagonista a Marion Cotillard.
La Fille Inconnue (La ragazza senza nome), pur fondandosi sulle tematiche alla base della poetica dei due registi, decide di tenere sullo sfondo le esplicite dinamiche del disagio sociale, preferendo spostare l’attenzione sulla prospettiva di una donna al di fuori della società degli emarginati, una giovane ed ambiziosa dottoressa (Adele Haenel) che, in una sera qualunque, decide di non rispondere al citofono del suo studio, oltre l’orario di apertura, a causa di un superficiale desiderio di affermare la propria autorità nei confronti del tirocinante che le è stato affidato, un ragazzo capace ma emotivo, incapace di anteporre la professionalità alla sensibilità umana.
La mancata risposta a quello che si rivelerà essere un urlo di aiuto di una giovane donna senza nome, ritrovata morta la mattina seguente non lontano dallo studio, rappresenterà per la dottoressa la molla che farà scattare in lei, attraverso il senso di colpa, la volontà di affrontare diversamente la propria professione, anteponendo il bisogno degli ultimi alla propria ambizione.
Comincerà così un’indagine intima e privata tesa a restituire alla giovane donna morta per non essere stata ascoltata, la dignità di un nome e di una sepoltura, in nome di un’empatia che nasce dal rendersi conto che per essere un buon medico bisogna innanzitutto essere un buon essere umano.
La ragazza senza nome: i fratelli Dardenne in una riflessione intima e sommessa sui temi della colpa e della responsabilità sociale
I fratelli Dardenne seguono la protagonista con inquadrature strette, realizzate con la macchina a spalla, a voler sottolineare i vari movimenti, spesso disordinati, che la dottoressa Jenny Davin si troverà a compiere per scoprire il nome delle ragazza; una missione che non persegue tanto l’obiettivo della verità, quanto quello, più semplice solo all’apparenza, di restituirle almeno la dignità di un nome, in una società in cui il valore di un uomo dipende vergognosamente dalla sua posizione all’interno della società.
Jenny si troverà così ad affrontare l’omertà e la vergogna delle persone coinvolte nella vicenda, trovandosi di fronte ad una realtà al di fuori della propria portata, fatta di situazioni complesse che coinvolgono l’autorità e loschi sistemi di potere che le impediscono di avvicinarsi troppo alla verità. Una verità scomoda, difficile da affrontare anche per coloro che – pensando di ignorare le proprie colpe – si trovano invece perseguitati da una donna che, nonostante non sia più in vita, vive nella coscienza di chi avrebbe potuto e dovuto evitarne la morte.
Un film sommesso e riflessivo, che nella lentezza del suo svolgersi lascia lo spazio personale per far emergere il proprio punto di vista sul tema della responsabilità, sottolineando come spesso includa anche e soprattutto il non fare.
A Jenny non resterà altro che espiare la propria colpa nell’unico modo utile e cioè cambiando se stessa e la propria visione del “prendersi cura”, un impegno che non può e non deve lasciar fuori le emozioni.
La Fille Inconnue, pur non possedendo la forza espressiva di altri lavori dei fratelli Dardenne, mostra la maturità di un linguaggio che, dopo aver tante volte urlato il proprio messaggio, decide di fermarsi per affrontarlo da una nuova prospettiva, all’apparenza più rassegnata ma che vede ancora la speranza nell’impegno personale e quotidiano dell’ “aprire la porta” al prossimo, chiunque egli sia.