Cannes 2016 – È solo la fine del mondo: recensione del film di Xavier Dolan
L’enfant prodige del cinema contemporaneo Xavier Dolan torna a calcare le scene di Cannes, a distanza di due anni dalla conquista del Premio della Giuria con l’indimenticabile Mommy e di uno dalla partecipazione alla kermesse in qualità di membro della giuria stessa, con È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde.)
Ispirato alla piéce teatrale di Jean-Luc Lagarde, il film vede protagonista Louis (Gaspard Ulliel), uno scrittore affetto da una malattia terminale, di ritorno a casa dopo 12 anni di assenza per comunicare la notizia della propria morte imminente alla famiglia di origine, un concentrato di eccentricità, rumore e tendenza al litigio, poco propensa a discorrere e molto incline alla critica e alle recriminazioni. In particolare, l’arrivo improvviso e apparentemente immotivato di Louis destabilizza i suoi cari, spingendoli a fare domande delle quali non aspettano risposta, in una circolarità di dialoghi sovreccitati e sopra le righe a cui manca l’attributo fondamentale: l’ascolto.
Louis si trova così invischiato nell’imbarazzo di un momento sospeso e contemporaneamente sfuggente, nel vortice di critiche per essere andato via e confusione per la non comprensione del suo ritorno, incalzato da portate colorate e riassunti di una vita che non ha vissuto e mai potrà recuperare, mentre l’orologio scandisce i minuti che lo separano dal momento giusto per fare il proprio annuncio ed uscire per sempre di scena.
È solo la fine del mondo: Xavier Dolan racconta l’incomunicabilità della morte
In È solo la fine del mondo Xavier Dolan presenta il tema esistenziale del tempo, una schiavitù che modifica irreversibilmente i rapporti e l’approccio alla vita stessa, nascondendo sotto una coltre di paura travestita da indifferenza il turbamento insopportabile per ciò che ci si sta lasciando irreversibilmente alle spalle. Nonostante Louis abbia dipinto in volto il profondo turbamento che lo affligge, nessuno (o quasi) dei familiari sembra notarlo, riempiendo di parole vuote ed ingiustificati scatti d’ira la propria incapacità di accettare l’inaccettabile.
Lo spazio di una cena e di un ultimo weekend insieme assume così la forma di un addio che, per essere accolto, ha bisogno di cambiare le carte in tavola, sabotando la categoria del tempo a vantaggio della propria integrità, gridando il disperato bisogno di non percepire la fine e trasformando l’addio in un rassicurante arrivederci.
È solo la fine del mondo rappresenta un progressivo processo di catarsi, in cui il ritmo della vita che sfugge viene sovrapposto a quello delle inquadrature, scandite dalla musica e dagli sguardi consapevoli ma vigliaccamente reticenti dei protagonisti
Dolan, già maestro di sconvolgimenti emotivi, qui calca forse un po’ troppo la mano alla ricerca della commozione, caratterizzando i propri personaggi ozpetekiani con quel briciolo di autoreferenzialità di troppo che impedisce di spogliarsi di ogni difesa ed immergersi completamente nella storia. Un vincolo imposto forse dal copione di partenza, ambientato tutto o quasi in una stanza e quindi privo di quegli spazi in cui Dolan ama far volteggiare gioia e disperazione.
È solo la fine del mondo resta così un passo dietro agli altri suoi lavori, in particolare allo splendido Mommy, dal quale quest’ultimo film non ha saputo attingere quel tocco di onirica soavità e leggerezza in grado di far virare l’enfatico nel sublime.
Sostenuto dalle prestazioni attoriali di un cast stellare (Vincent Cassel, Marion Cotillard, Léa Seydoux e Nathalie Baye), alla prova in ruoli molto diversi da quelli che hanno caratterizzato i loro passati lavori, e da un finale che ha il sapore di quella libertà ritrovata, indispensabile al regista per trovare il coraggio di superare qualunque avversità, È solo la fine del mondo resta comunque una prova ammirevole per un cineasta che – ricordiamolo – è ancora all’alba della sua più che promettente carriera.