Nel corso del tempo: recensione
Nel corso del tempo (Im Lauf Der Zeit), di Wim Wenders
Bruno lancia un urlo alla Tarzan, che non vaga potentemente nella giungla selvaggia ma produce solo un’eco leggera che si spegne intorno a lui, avvolto in una coperta davanti alla distesa calma e grigia di un’ansa del Fiume Elba. Un’automobile in corsa taglia lo schermo da un capo all’altro, alla guida è Robert (Kamikaze), tra le mani poggiate sul volante tiene la fotografia di una casa di campagna, la strappa e getta i frammenti dell’immagine dal finestrino. Intanto si sparge la musica degli Improved Sound Ltd. La folle corsa del maggiolino di Robert continua, attirando l’attenzione di Bruno che si sta radendo davanti allo specchio retrovisore del suo camion, fino a tuffarsi nel fiume senza alcun tentativo di frenata. Inizia così Nel corso del tempo, film del 1975 di Wim Wenders, terzo capitolo della “trilogia della strada” dopo Alice nelle città, del 1973, storia di un reporter che non riesce a scrivere corrispondenze di viaggio e una bambina alla ricerca della casa di cui possiede una vecchia foto, e Falso movimento, del 1974, libero adattamento contemporaneo del Wilhelm Meister di Goethe scritto con Peter Handke. Il tema del viaggio è continuo, tutto avviene “nel corso del tempo”, anche la sceneggiatura è itinerante, scritta giorno per giorno durante le riprese. Il viaggio per Wenders è ricerca, è movimento, è il tratto distintivo del suo cinema e qui è tutto il film, senza una trama vera e propria né una grandiosa varietà di episodi nella storia dei due protagonisti, eppure resta una delle sue opere più interessanti. Non ci sono lunghi discorsi, più un silenzio che fa da specchio profondo alle poche e lucide parole sul passato e sul presente.
Bruno, King of the Road, vive su un camion attrezzato come casa-laboratorio con cui si sposta lungo la frontiera tra le due Germanie, riparando i proiettori delle sale cinematografiche. Dopo la sosta sulla riva dell’Elba incontra Robert, il pediatra che si occupa di problemi del linguaggio, da poco separato dalla moglie, che ha appena terminato la sua corsa in macchina nel fiume. Lo ospita e lo porta con sé nel suo giro tra i cinema di provincia. Tra i due nasce amicizia.
“Bruno: non voglio sapere la tua storia
Robert: allora cosa vuoi sapere?
Bruno: chi sei
Robert: io sono la mia storia.”
I due nomadi viaggiano on the road alla fine delle utopie giovanili del ‘68, rifuggono l’assimilazione ad un gruppo, un ruolo, una famiglia o uno Stato che non c’è, come la Germania divisa in due. È un viaggio esistenziale verso il loro presente e il loro passato ma è anche un viaggio dentro il cinema. Il cinema è una macchina e come tale si può montare e smontare in tutti i suoi elementi. Ciò che fa Wenders, mostrando il tempo e il movimento dilatati in lunghi piani sequenza o seguendo i personaggi in interminabili camera car oppure indugiando sulle più banali azioni quotidiane, esaltando l’importanza del tempo e del movimento. Movimenti che sono spostamenti nello spazio e nella conquista di nuove visioni. Ed è anche ciò che fa Bruno, “tecnico” per lavoro e per vocazione, che smonta retroscenicamente il cinema riparando il meccanismo del movimento della pellicola all’interno del proiettore, basta ricordare il discorso sulla croce di Malta che fa al proiezionista in uno dei tanti piccoli cinema.
“Senza questo affare il cinema non esisterebbe, 24 volte al secondo fa fare un passetto avanti alla pellicola, trasforma il movimento di rotazione in movimento di trazione”.
Si separano per poco tempo, quando Robert va a trovare il padre, piccolo editore di provincia, con il quale ha sempre avuto un rapporto difficile. Si ritrovano e partono a bordo di un sidecar, viaggio nel viaggio e citazione di Easy Rider, per raggiungere un’isoletta sul Reno, dove si trova la casa dell’infanzia di Bruno. Arrivati nella casa natale di Bruno lui si accorge dell’impossibilità di riabitarla e riconosce se stesso proprio nell’impossibilità di rivivere il proprio passato, come Robert aveva fatto parlando con l’anziano padre. Entrambi hanno una storia, ma il loro passato non esiste più e il viaggio non può che continuare. Il loro viaggio e il loro sodalizio trova fine quando giungono alla frontiera, metafora della separazione e riflessione sull’identità personale e nazionale. Robert, nella postazione americana abbandonata, afferma:
“Gli Americani ci hanno colonizzato il subconscio”.
È uno dei temi principali della filosofia del viaggio wendersiana, egli appartiene alla generazione oppressa dalla memoria del nazismo e della II Guerra mondiale ed ha preso come riferimenti culturali modelli stranieri, soprattutto quello americano. Questo ha generato un conflitto d’identità sanabile solo con la ricerca di una nuova consapevolezza del mondo, benessere preliminare a qualunque esistenza e impossibile da trovare stando fermi nella stessa esperienza di realtà.
Aspettando il treno, Robert scambia la propria valigia vuota con il quaderno di un bambino; Bruno, invece, dopo aver ascoltato la proprietaria della sala cinematografica Weisse Wand (letteralmente “schermo bianco”), sconsolata per la situazione del cinema in Germania, strappa la mappa del proprio itinerario. Nell’ultima sequenza Robert è sul treno mentre Bruno è ancora alla guida del suo camion e si vedono parallelamente come se stessero ancora insieme e la loro esperienza di viaggio non si fosse davvero conclusa.
Nel titolo è il grande tema del film e torna alla memoria ogni volta che pronunciamo quella frase. Come non ricordare il gioco delle ombre cinesi che i due amici conducono davanti ai bambini impazienti per il ritardo nell’inizio del film, muovendosi dietro lo schermo con gestualità e cadute slapstick. Questo è forse uno dei film più belli di Wenders, quello in cui realizza la sua principale aspirazione: “La settima arte è in grado più di ogni altra di catturare l’essenza, il clima e le tendenze del suo tempo, anche le speranze, le paure e i sogni, articolandoli in un linguaggio universalmente comprensibile.” (W. Wenders, L’atto di vedere, Ubulibri, 1992). Da utilizzare per introdurre un discorso sui nuovi media, partendo dalla fine del cinema come fatto sociale, come nelle sale visitate da Bruno, per approfondirlo e scoprire (se mai è possibile) se è ancora il cinema il modo migliore per capire il mondo.
Soggetto e sceneggiatura: Wim Wenders. Interpreti: Rüdiger Vogler (Bruno Winter, King of the Road), Hanns Zischler (Robert Lander, Kamikazen), Lisa Kreuzer (Pauline), Rudolf Schündler (il padre di Robert); fotografia: Robbie Müller; montaggio: Peter Przygodda; scenografie: Heidi Lüdi, Bernd Hirskorn; musiche: Improved Sound Ltd. Germania.
Premio della critica a Cannes nel 1976.