Un mondo perfetto: recensione del film di Clint Eastwood
A cavallo fra il trionfale Gli Spietati e il commovente I ponti di Madison County, Clint Eastwood nel 1993 ha diretto Un mondo perfetto, film passato all’epoca abbastanza inosservato ma tutt’altro che minore, e perfettamente inserito nella poetica e nelle tematiche del regista statunitense. Protagonista della pellicola è un Kevin Costner all’apice della sua popolarità, affiancato dal giovanissimo T.J. Lowther, da Laura Dern (reduce dal successo di Jurassic Park) e dallo stesso Clint Eastwood, in un ruolo dal basso minutaggio, ma fondamentale nell’economia della storia. Nonostante il cast decisamente importante e l’apprezzamento generale da parte di critica e pubblico, Un mondo perfetto non ha ottenuto nemmeno una candidatura ai principali premi del cinema mondiale.
Un mondo perfetto: un road movie atipico che mette in scena l’ipocrisia e il cinismo della società americana
Ci troviamo in Texas nel 1963, a pochi giorni di distanza da un evento che cambierà per sempre la storia americana e mondiale, ovvero l’assassinio del Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy a Dallas. Il galeotto Butch Haynes (Kevin Costner) evade insieme a Terry Pugh (Keith Szarabajka) dal carcere di Huntsville, rapendo nel corso della fuga Phillip Perry (T.J. Lowther), un bambino di soli otto anni. Sulle tracce dei fuggitivi si pone il ranger Red Garnett (Clint Eastwood), a cui vengono fornite importanti risorse tecniche e umane, ovvero una speciale roulotte con cui dare la caccia ai ricercati e il supporto della criminologa Sally Gerber (Laura Dern). Inaspettatamente, fra Butch e Phillip, rapitore e rapito, nel corso della fuga nasce un rapporto di sincera amicizia, che fa emergere l’umanità e la bontà d’animo del fuggitivo.
Come da tradizione del cinema di Clint Eastwood, Un mondo perfetto mette in scena una storia fatta di difficili scelte morali, all’interno della quale il bene e il male si mescolano fino a ribaltare completamente i loro ruoli. Un road movie atipico e amaro, in cui il mondo, nonostante il titolo, viene dipinto come un posto tutt’altro che perfetto, dominato dalle contraddizioni sociali, dalla violenza e dall’ipocrisia. Un mondo ingiusto e corrotto, in cui nessuno vince per davvero, e dove avviene la definitiva perdita dell’innocenza dei propri personaggi e, più in generale, della società americana. Non è un caso, infatti, che la vicenda si svolga a pochi giorni da quell’indelebile 22 novembre 1963, in cui la purezza degli Stati Uniti e la speranza di una nazione migliore e più equa hanno ceduto definitivamente il passo a una società vittima delle proprie insicurezze e delle proprie divisioni, sempre più arrogante e incoerente nella politica interna ed estera.
In una nazione capace di uccidere a sangue freddo un promettente e rassicurante Presidente e, simbolicamente, le proprie istituzioni, non stupisce che siano gli stessi tutori della legge e dell’ordine a sostenere e alimentare una società iniqua, che persegue una giustizia superficiale e di facciata, senza fermarsi a ragionare e a comprendere la realtà delle specifiche situazioni. Accade così che si dia una caccia spietata e senza quartiere a un uomo che in fin dei conti, seppur colpevole, si dimostra più rassicurante e umano di quanto sia mai stata la bigotta famiglia del suo piccolo ostaggio. Un mentore inconsueto e certamente poco raccomandabile, che fa però sentire per la prima volta veramente vivo Phillip, facendogli provare anche esperienze piacevoli e mai provate prima, come una visita al luna park. Rapitore e rapito si stimolano a vicenda nella ricerca dei propri sentimenti più intimi e profondi, in un rapporto dolce e coinvolgente che occupa gran parte della pellicola, diventando metafora di una società che cerca di ricostruire dalle proprie fondamenta e dalle piccole cose, trovando però un duro e fermo ostacolo da parte della legge.
Clint Eastwood dirige con grande rigore ed essenzialità, limitando i virtuosismi registici a diverse (splendide) panoramiche dei paesaggi attraversati dai protagonisti, che ricordano quelle dei western che hanno contribuito a renderlo celebre. Un mondo perfetto riesce così a non essere mai ridondante o tedioso, pur essendo essenzialmente una fuga lunga più di due ore che insiste su pochi, ma ben sviscerati, temi. Il merito di ciò risiede anche nell’ottima sceneggiatura di John Lee Hancock, che non lascia nulla al caso e rende anche il più piccolo dettaglio funzionale alla narrazione o alla riflessione su un determinato concetto. Lodevole inoltre il lavoro di tutto il cast, con un Kevin Costner sugli scudi, che con una delle migliori performance della sua memorabile carriera dona spessore e profondità a un personaggio complesso e ricco di sfaccettature. La star di Balla coi lupi è ben supportata dal giovanissimo T.J. Lowther (poi mai esploso definitivamente), dalla sempre valida, anche se leggermente sacrificata all’interno della storia, Laura Dern e da un Clint Eastwood che si ritaglia una prova solo apparentemente rigida e inespressiva, ma in realtà densa di contenuti e significati in ogni silenzio e in ogni sua smorfia.
Con Un mondo perfetto, Clint Eastwood centra uno dei tanti successi della propria carriera, dando vita a un anomalo racconto di formazione che affascina e commuove, pur rifiutando qualsiasi buonismo o ricatto morale nei confronti dello spettatore, sfociando apertamente in un’aspra e severa critica sociale. Un film tragicamente reale e oggi più attuale che mai, che mettendosi dalla parte dei perdenti e degli emarginati riesce a toccare le corde del cuore e a fare luce sul cinismo e sull’ipocrisia della società americana.