Skiptrace – Missione Hong Kong: recensione del film con Jackie Chan
L’ispirazione per Skiptrace – Missione Hong Kong è arrivata per la prima volta nel 2010, a Jackie Chan, mentre girava The karate kid. Sentì l’esigenza di mostrare ai suoi spettatori le bellezze del posto da cui proviene, i paesaggi della Cina: dagli altipiani della Mongolia, attraverso i fiumi dello Yangste, le montagne della catena Huangshuan, alle torri di neon di Hong Kong.
La trama rispetta i punti cardini del film d’azione, innervandosi in momenti comici e divertenti che Jackie Chan regala, tra acrobazie e mimiche facciali, ispirate da Charlie Chaplin.
Bennie Chan (Jackie Chan) è un detective di Hong Kong che, dalla morte del suo partner Yung (Eric Tsang), è sulle tracce di Victor Wong (Wenxuan “Winston” Chao), presunto capo della malavita. Dall’altra parte Connor Watts (Johnny Knoxville), giocatore d’azzardo, sta sfuggendo da una banda russa e si ritrova testimone di un omicidio nel casinò. Facendo un gioco disonesto mette in pericolo l’hostess Samantha Bai (BingBing Fan), la nipote di Bennie Chan, che viene chiamata per trovare il fuggiasco.
Bennie Chan allora si mette sulle tracce di Connor Watts, che troverà in Russia e cercherà di riportarlo a Hong Kong per rispondere delle sue colpe. I due sono dentro una cosa più grande di loro. I gestori del casinò sono la banda malavitosa che governa la città e vogliono Watts per quello che ha visto, ma soprattutto preso: il telefono della ragazza uccisa, che contiene i segreti delle loro operazioni.
La loro fuga dalla Russia a Hong Kong, a piedi e con mezzi di fortuna, permetterà di scoprire un paese incontaminato, fatto di tradizioni locali e usanze lontane dal nostro mondo. A mano a mano che andranno avanti sarà tutto più chiaro, fino alla resa dei conti finale, dove i colpi di scena sveleranno una trama intrigante e complessa. La regia di Renny Harlin è semplice, la storia viene raccontata dal punto di vista dei protagonisti, e proprio per questo è avvincente. Fino alla fine non sappiamo niente, solo attraverso le loro scelte e azioni scopriamo dove stiamo andando.
Le parole sono più che mai contenute e non se ne sente l’assenza dato che lo schermo è sempre pieno di accadimenti, gesti ed espressioni che comunicano oltre la parola.
Le immagini sono luminose e fresche, le scene sono girate per lo più in esterna e sono gli stessi paesaggi a garantire la splendida resa. A mantenere vigile lo spettatore sono i combattimenti, fatti di acrobazie e situazioni di estremo pericolo. Come sempre Jackie Chan ha girato tutto in prima persona, coinvolgendo lo spettatore nella tensione di rischi che rasentano la morte.
Come sempre Jackie Chan ha girato tutto in prima persona, coinvolgendo lo spettatore nella tensione di rischi che rasentano la morte
In questo palcoscenico le donne sono un elemento fondamentale, inserite sia nei combattimenti come la scena di Dasha (Eve Torres) e Chan, dove lui si nasconde dietro una gigante matrioska che lei spacca trovandosi davanti le miniature in proporzione. Importanti soprattutto come motore della vicenda: a causa di una donna ha inizio l’avventura, Samantha è in pericolo, lo zio la vuole salvare e il giocatore d’azzardo conquistare; una donna viene uccisa perché voleva smascherare la banda criminale, una donna (Dasha) darà la possibilità a Watts di trovare una soluzione finale, una donna farà smascherare il criminale. Le donne portatrici della forza, di uno scopo, di una soluzione e di un sentimento creano questo vortice in cui buoni e cattivi sono catturati e iniziato a roteare scontrandosi, allenandosi, in una lotta continua, alla ricerca della verità, del potere, o semplicemente di una pace.