Timbuktu: recensione

Timbuktu rappresenta uno spaccato – volutamente enfatizzato  – di ciò che la vita può diventare sotto la dominazione di un movimento fondamentalista religioso: laddove la legge viene prescritta senza motivarne funzioni e ragioni, il popolo si ritrova vessato da imposizioni tanto  irrazionali quanto umilianti, costretto ad un’obbedienza passiva che distrugge progressivamente dignità e vitalità.

Nell’ultimo lavoro del regista Abderrahime Sissako i reati diventano sempre più improvvisati ed assurdi: non si può fumare, non si può ascoltare o fare musica, non si può giocare a calcio, le donne devono indossare  guanti pure per vendere il pesce al mercato, in un crescendo di autoritarismo fanatico e  gratuito che ha ben poco a che fare con qualunque credo religioso e molto a che vedere con il lato oscuro della psicologia umana.

Gli stessi Jihadisti mal celano debolezze ed indecisioni, mentre il popolo comincia sempre meno impercettibilmente a ribellarsi a questo regime di terrore, in uno scenario in cui la contrapposizione tra oppressi ed oppressori viene raccontata mettendone in luce insensatezza e precarietà, per mezzo di un linguaggio ironico ma misurato.

Tra le dune sabbiose, appena fuori dalla città di Timbuktu, occupata dagli integralisti islamici, vive in pace una famiglia berbera composta dal padre Kidane (Ibrahim Ahmed aka Pino), dalla moglie Satima (Toulou Kiki), dalla figlia dodicenne Toya (Walet Mohamed) e dal figlio adottivo Issan (AG Mohamed), guardiano della loro mandria di buoi. In paese le persone vivono in regime di terrore, private progressivamente di ogni libertà e vittime di sentenze sempre più assurde e crudeli.

Timbuktu recensione

La famiglia di Kidane

La quiete della famiglia è destinata ad essere definitivamente turbata quando Kidane uccide accidentalmente, nel corso di una discussione, il pescatore Amadou, reo di aver massacrato GPS, il bue della mandria al quale erano più affezionati:  l’uomo si trova così costretto a dover affrontare la nuova legge della città.

Timbuktu è una pellicola dalle premesse importanti: nata dal tragico spunto della lapidazione (avvenuta nel luglio del 2012) di due giovani, genitori di due bambini e colpevoli di non aver contratto matrimonio,  vuole essere un atto di denuncia di quanto la situazione politica sia sfuggita di mano in questa estesa area del mondo, in cui si semina morte e terrore in nome di aleatorie prescrizioni profetiche; tuttavia il film lascia disattesa più di un’aspettativa, scegliendo una narrazione a tratti davvero troppo poco ritmica ed un linguaggio semi-documentaristico in cui l’azione, che ci si aspetterebbe essere incentrata maggiormente sulle reazioni del popolo, viene relegata quasi esclusivamente alla violenza delle punizioni.

Il messaggio è che la ribellione è già cominciata, ma il regista ha preferito mettere in luce i fatti per quello che ancora sono, evidenziando attraverso dialoghi lunghi e cadenzati non tanto la psicologia dei personaggi (che resta prevalentemente in ombra),  quanto soprattutto i sentimenti contraddittori dei carnefici,  spesso incerti e non profondamente convinti del credo che professano, e quelli del popolo, oscillanti tra impulso di reagire e sottomissione passiva al volere del loro Dio.

Timbuktu recensione

Scena del film

Bellissime e memorabili alcune scene simboliche, su tutte quella della partita di calcio senza pallone, tuttavia la sensazione è che molto altro si sarebbe potuto dire e che qualcosa si sarebbe invece potuto tagliare, dando più spazio alle reazioni e meno al racconto dettagliato di situazioni- tipo che, tutto sommato, finiscono per avere tutte lo stesso corso.

C’è da tener conto, tuttavia, del momento storico e della prudenza che necessariamente bisogna adottare nel fare un film dichiaratamente anti-integralismo di matrice islamica, in cui un eccesso di troppo potrebbe sortire l’effetto contrario: a Timbuktu va il merito di aver comunque rotto il silenzio su una tematica che sta letteralmente terrorizzando tutto il mondo e di averlo fatto lanciando un messaggio di speranza e mettendo in discussione l’apparente invulnerabilità dei regimi del terrore, che dovranno sempre fare i conti con altre forze altrettanto (se non più) potenti: quella del desiderio di libertà ed autoaffermazione e quella dell’amore.

Timbuktu, premio della regia ecumenica a Cannes e candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero, uscirà nelle sale italiane il 12 febbraio, distribuito da Academy 2.

Giudizio Cinematographe

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 3

3.2

Voto Finale