Edward Norton: il dualismo dell’uomo moderno in 4 ruoli emblematici
Edward Norton è uno dei migliori attori che abbiano mai calcato i viali sfolgoranti di Hollywood, un uomo di una rara intelligenza, che ha saputo scegliere i ruoli adatti alla sua personalità, ruoli che andassero al di là della spendibilità o della visibilità che avrebbero potuto apportargli, garantendogli una carriera coerente e molto complessa.
Edward Norton interpreta spesso uomini divisi, frammentati, tendenti al bipolarismo, che ricercano un modo di stare al mondo quasi irrealizzabile, non possedendo un riflesso di realtà in cui specchiarsi.
Qui di seguito vi mostriamo i migliori film di Edward Norton, pervasi da questo dualismo e da un reale senso del doppio nell’uomo di oggi.
Schegge di paura (1996)
Schegge di paura vede tra i protagonisti Richard Gere, Laura Linney ed Edward Norton. Norton interpreta Aaron Stampler, un giovane chierichetto balbuziente accusato di aver ucciso l’arcivescovo di Chicago: niente e nessuno farebbe pensare il contrario, lui è l’unico imputato, non ci sono alibi né sentenze che tengano.
Ma un avvocato penalista, Martin Vain, crede fermamente che ci sia altro quindi, preso dalla voglia di spiccare come un novello luminare del Foro, si butta a capofitto nel caso scoprendo che l’indiziato non solo ha delle continue perdite di memoria da quando era molto giovane ma anche che lo stesso arcivescovo certo povero di colpe non era, considerato che costringeva Aaron a fare sesso, minacciandolo continuamente nei modo più disdicevoli, non solo lui ma anche la sua ragazza e altri sfortunati individui, perseguendo questi atti con la convinzione che ciò avrebbe purificato le loro anime.
Quando il caso comincia a diventare così delicato e controverso, la doppia personalità di Aaron viene svelata: le sue perdite di memoria sono intervallate dalla presenza di un’altra persona, più violenta, più infida e aggressiva: egli soffre apparentemente di una disfunzione di personalità multipla che lo fa annegare in un amnesia abissale quando è quella persona a prendere il sopravvento. Anche se poi la verità ha un volto differente: il vero nesso della pellicola sta proprio nella sottile linea tra follia ed equilibrio e di come Edward Norton sia geniale e brillante nel saper distinguere la realtà e la sua finzione interiore.
American History X (1998)
American History X è una pellicola diretta da Tony Kaye. Edward Norton intepreta Derek Vinyard, uno skinhead che cavalca l’onda del neo nazismo americano, una pulsione purtroppo spenta mai del tutto.
In seguito all’uccisione del padre da parte di un afroamericano, Derek troverà la sua ribellione nella predicazione del potere bianco, scatenata principalmente dalla frequentazione di una figura losca quale Cameron Alexander, che porterà lui e i ragazzi come lui, deboli, insofferenti e ignoranti, a immolarsi alla causa politica, razzista e devastante, che silenziosa si annidava tra le famiglie medio borghesi di una Los Angeles in preda al panico e che quasi come in un incubo lucido si scopre razzista senza mai comprenderne le ragioni.
La pellicola, già nei battiti iniziali, dà il benvenuto allo spettatore con un massacro: Derek uccide a sangue freddo un gruppo di ragazzi di colore che gli stavano rubando la macchina. Il carcere è la sua nuova casa che per tre anni lo porterà a valutare il suo modo di stare al mondo, i suoi pensieri, i suoi atteggiamenti e il modo che ha la sua vita di influenzare quello della sua famiglia e soprattutto di suo fratello minore Danny, che intanto in sua assenza aveva preso le sue stesse strade, White Power e annesse nostalgie apocalittiche.
La redenzione è prossima e lo stesso film ha un modo preciso di dividere il caos dalla pace, la fede cieca in una religione di stampo hitleriano dalla presa di coscienza, il bicromatismo iniziale e lo svelamento di altri e vividi colori che l’ignoranza a volte esclude dallo sguardo, e lo stesso Derek che apprende sulla sua stessa pelle cosa significa subire un pregiudizio cambierà rotta per il suo bene e quello della sua famiglia.
Fight Club (1999)
Fight Club è un film di David Fincher , interpretato da Brad Pitt ed Edward Norton e ispirato fedelmente al romanzo omonimo di Chuck Palahniuk. Per quanto riguarda il dualismo, lo sdoppiamento e la negazione di sé questa pellicola è l’esempio di quei topoi del doppio, con tutti i conflitti che ne determinano la condizione incessante.
Ma nel caso in questione è importante cogliere come ci sia in realtà un unico personaggio nel film, o almeno un solo nome: Tyler Durden. Altro non esiste. Edward Norton è un essere anonimo che lavora come consulente, soffre di insonnia e di altre miliardi di paranoie e frequenta gruppi di ascolto per persone malate e in cura, poiché quei gruppi permettono in qualche modo all’insonnia di dargli tregua.
In uno dei suoi viaggi di lavoro incontra Tyler, venditore di sapone, cominciano a parlare e ad intrattenere un’amicizia molto fisica, tant’è che se le danno di santa ragione per il gusto di liberarsi dai propri limiti borghesi. Ma l’amicizia ha una propria evoluzione e come tale anche la sua stessa vita: lentamente prenderà coscienza che la sua persona sarà nutrita dall’odio per la società, per il suo lavoro e per sé stesso, per non essere all’altezza del mondo, delle aspettative e di non volerle rappresentare in nessun modo.
La pellicola ci porta tra le trame di un’autodistruzione che parte dal microcosmo elegiaco dell’uomo solo, depresso e afflitto
e prosegue alla totalità anti eroica del mondo odierno. Di giorno anonimo, di notte Tyler. La negazione non avviene solo in termini di sopraffazione di una persona o di un proprio carattere anzi, Fight Club mostra come effettivamente l’anonimato del protagonista non avvenga per caso: egli è lo scarto di una società in frantumi, consumistica, con il solo valore del possedimento, del denaro, della completezza di un appartamento, senza misurare quanto poco di reale e di personale ci sia nella bieca scelta del tavolo da pranzo quando in gioco c’è l’esistenza e la scomparsa di una personalità afflitta e debole.
Tyler Durder di per sé è l’unico residuo di esistenza rimasto al protagonista per potersi affermare, Norton come persona non ha il coraggio per amare Marla Singer, non riesce a licenziarsi ed evadere da un lavoro bloccato nel nascere, non sa vivere, non sa comportarsi e trova il suo modo di vivere attraverso Tyler.
Come Tyler trova nel sabotare pellicole per famiglie un lavoro e un’attività da svolgere con passione, lo stesso Fight Club è un film sabotato, reciso, come l’esistenza stessa e la stessa società bistrattata e derisa nella pellicola: siamo perseguitati da messaggi subliminali, falsi miti e profezie disarmanti su come vivere al meglio secondo regole che non ci appartengono ed essere determinati a desiderarlo come un’idea nostra e solo nostra. Nessuno si accorge di niente, eppure tutti hanno visto.
La 25ª ora (2002)
La 25ª ora è un film di Spike Lee. Edward Norton interpreta Monty Brogan, uno spacciatore prossimo a finire in carcere per 7 anni e al quale è rimasto un unico, singolo giorno di libertà in cui potrà salutare gli amici, il padre a la ragazza. Monty è affranto dal dolore del distacco e dalla rabbia di voler sapere chi e come ha scoperto i suoi giri di droga e che l’ha denunciato alla polizia senza pensarci due volte.
Sono tanti i sospetti ma alla fine dei conti la colpa la farà ricadere solo su se stesso. Il monologo del film allo specchio è uno dei più profondi e significativi che siano mai stati scritti, rabbioso, funesto e autolesionista, in cui il suo riflesso fa ricadere la colpa su chiunque nella città di New York, dagli stranieri per strada, alla famiglia alla sua persona, che sta per finire in carcere e non può in nessun modo evitarlo.
I suoi errori alla fine lo porteranno in macchina, sulla via per il carcere accompagnato dal padre che lo traghetta e lascia che per quell’ora in più del suo ultimo giorno si senta libero di immaginare di potersi creare una vita, di scappare e non tornare mai più. Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza, il sogno sembra non potersi esaudire anche se sul finale c’è un’indecisione d’intenti, quasi come se fosse biforcato e non lasci che sia il freddo malessere del destino a segmentarne i fotogrammi ma una sola speranza: che quel viaggio metaforico possa essere realmente intrapreso.