Louis Garrel, il nepo baby che si è fatto Maestro con L’innocente
Con L'innocente Louis Garrel dimostra di essere diventato grande e di aver raggiunto uno stile di racconto e di ricerca che può dirsi soltanto suo. Il nostro brindisi (ragionato) a un battesimo d'autore.
L’innocente, quarto lungometraggio di Louis Garrel (Parigi, 1983), ora al cinema, sorprende per la chiarezza degli intenti e per la disciplina a cui sottomette gli elementi spuri che lo compongono, la mescolanza di generi, stilemi, ispirazioni tra loro differenti: la cinefilia del regista (anche sceneggiatore e interprete), appartenente a una famiglia di cineasti, non soccombe di fronte al peso dell’eredità, ed anzi l’alleggerisce, lo rivitalizza e l’addolcisce nel segno di un esistenzialismo millennial. Ecco perché, con il suo ultimo, riuscitissimo film, appare chiaro di trovarci al cospetto non più di una “giovane promessa“, ma di un già “venerabile maestro” (semicit.).
L’innocente rivela la maestria di Louis Garrel, mixatore di stilemi e analista sensibile ed intelligente delle contratture emotive dei Millennials
Di Louis Garrel ci piacciono i folti ricci bruni che non accennano a incanutire – e, infatti, al personaggio che interpreta nel suo ultimo film da regista e attore, L’innocente, attribuisce 32 anni d’età, ben sette anni in meno rispetto alla sua età effettiva –, il naso aquilino e massiccio che si congiunge alle labbra sottili quando queste si alzano in un sorriso, il suo modo di parlare italiano senza complessi, le battute di spirito sempre a loro modo rivelatrici di una qualche verità meno immediata, l’aria scarmigliata di chi ha ripudiato ogni forma di esplicita vanità e la nonchalance del purosangue parigino che conserva un’impressione di nobiltà pur senza tirarsela.
Di lui sappiamo del suo culto per Nanni Moretti – regista-feticcio –, della sua invidia per Luca Marinelli – “è bello, talentoso, intelligente“, ha confessato, tra candore e gusto della provocazione, a Serena Bortone – e della sua appartenenza a una famiglia di cineasti integralisti: il nonno Maurice è stato un attore; il padre Philippe, regista dall’estetica rigorosa e dall’acribia nella vivisezione di incostanze sentimentali ed elegantissimi tumulti interiori, è probabilmente l’ultimo custode della lezione ortodossa della Nouvelle Vague; la madre, Brigitte Sy, a cui è ispirato il personaggio di Sylvie nell’Innocente, con il quale condivide l’impegno in carcere come insegnante in laboratori teatrali per detenuti, nonché un passato di dipendenze da sostanze e uomini, è anch’ella un’attrice e una regista; la sorella Esther, che ricordiamo soprattutto nel ruolo di Marzia in Chiamami col tuo nome, non si è discostata dalla tradizione di famiglia e fa l’attrice pure lei.
Louis Garrel, dopo una vita sul set, nell’Innocente trova una sintesi tra eredità ricevuta e singolarità di un nuovo sentire
Tous au son : Louis Garrel écoute, avec Claudine Nougaret et Brigitte Sy.
“Les Baisers de secours”. 1989 pic.twitter.com/jxQVPTt8t4— Matthieu (@truffaldien1985) August 1, 2016
Il debutto da attore di Louis Garrel è avvenuto che aveva cinque anni, sul set del film Les baisers de secours, diretto e interpretato dal padre, film in cui interpreta il figlioletto di una coppia in crisi – il padre e la madre, nella vita e nello schermo – perché incapace di vivere entusiasmi e conflittualità al di fuori di un dispositivo di mediazione: la lente di una macchina da presa. Da allora, sebbene con una lunga pausa corrispondente alla piena infanzia e all’adolescenza, la sua carriera da interprete non ha subito battute d’arresto: ad oggi, la sua filmografia d’attore conta più di quaranta film, l’ultimo dei quali, I tre moschettieri – D’Artagnan, diretto da Martin Bourboulon, uscirà nelle sale la prossima primavera.
Eppure, con L’Innocente, il suo quarto lungometraggio da lui e scritto e diretto, Garrel sembra dimostrare che la sua prima vocazione è quella autoriale. Se i due film immediatamente precedenti – L’uomo fedele (2018) e La crociata (2021) – non trovano nel carisma del loro creatore-interprete una compensazione adeguata alle carenze di una scrittura ancora troppo acerba e drammaturgicamente esile, questo ultimo recupera la pienezza poetica dell’esordio – I due amici (2015) – e la diluisce in un congegno narrativo preciso, mitigandola con una levità che, nelle prime opere, spesso si confondeva nell’inconsistenza e nella confusione di intenti.
L’innocente sovrappone gli stilemi di più generi – c’è la commedia di stile francese, senza un alito di grossolanità; c’è il noir nella torsione crime della seconda metà del film; c’è il romance – ed eppure evita l’accrocco e la disarticolazione, l’accozzaglia di ispirazioni eterogenee. Trova, anzi, una sintesi perfetta non solo tra più ispirazioni ma anche tra un passato codificato – nell’estetica dell’immagine; nel suono che accompagna e valorizza la scrittura scenica – e un presente nuovo che affaccia al futuro: se la Lione convocata sulla scena da Garrel è appannata e malinconica e svagato il suo protagonista, Abel, nome che ritorna in tutti i suoi film – i suoi maschi sono sempre i fratelli buoni, che vorrebbero disobbedire, ma non ci riescono e restano a lungo ingabbiati nella loro identità di agnelli sacrificali non solo dell’altrui malvagità, ma anche della propria codardia –, l’impressione che se ne ricava non è di un già visto ma di ritorno a un futuro anteriore, qualcosa che non è (!) accaduto prima, ma probabilmente sarà accaduto. Non si tratta di un passato quale categoria cronologica, di uno ieri che si può circoscrivere o segmentare storicamente.
Il filtro vintage che Garrel applica al film – a questo in particolare, con una maggiore resa, ma vale anche per i film precedenti – non è passatismo o deficit immaginativo né tantomeno inclinazione nostalgica, ma esigenza di una distanza, di un confezionamento – una messa in cornice, forse – della materia ustionante dell’oggi, e senz’altro anche amore per l’eredità paterna, sedimentazione di un sapere cinematografico che radica nel passato e nei confronti del quale non si avverte la necessità di ripudio. Louis Garrel è figlio di suo padre e di sua madre, ma ora anche di sé stesso e nell’Innocente si autogenera proprio in quel solco che separa l’eredità ricevuta dalla voglia di farne qualcosa di nuovo, fedele e infedele alla lezione appresa.
Con L’innocente, Garrel mette a fuoco la sua poetica e trova la via del compromesso felice tra una pluralità di stili e temi nel segno dell’oscillazione tra ciò che ha appreso e ciò che ha raggiunto autonomamente
Quel che Garrel fa, a suo modo, nel solco e fuori dal solco, è riflettere sui mascheramenti della nostra viltà. L’innocente racconta di un amore che potremmo definire edipico: il legame tra un trentenne e sua madre, una donna che, al contrario del figlio, si getta nella mischia senza scudi e poco le importa se ne esce ferita. Ci fa entrare nell’intimo un po’ contratto di un giovane uomo che ha subìto un lutto e ce ne mostra il disgelo emotivo, l’apertura a un nuovo amore (libero dell’Edipo, anche se non del tutto). Ci dice – ed è singolare come sia inevitabile tornare alle origini, al primo film in cui ha preso parte il piccolo Louis – che non vi è alcuna verità possibile se non all’interno di un dispositivo di finzione, di un elemento mediatore, terzo ed esterno al rapporto duale, che faccia da schermo, che soprattutto protegga dall’urto.
Gli innesti metateatrali – tra gli aspetti più interessanti del film – sia ineriscono perfettamente alla struttura complessiva del racconto scenico, così da non sembrare mai eccedenze virtuosistiche, sia disegnano un apparato indiziario che permette alla poetica dell’autore di rivelarsi a lui stesso e al suo pubblico: l’urgenza di un cinema che riveli proprio nel e attraverso il nascondimento, perché nulla di quello che resta incagliato nella lettera in essa può esaurirsi, ma bisogna sempre leggere al di là, appunto nelle battute confezionate ad arte, nella sceneggiata che, solo negli eccessi di affabulazione costruita e nella menzogna a favor di intrattenimento o missione superiore, nelle aderenze apparentemente fortuite tra sentimenti recitati e sentimenti reali, rende autentico l’artificio.
E così Abel, iperresponsabile nei confronti della madre, cela dietro la preoccupazione per lei il rifiuto ad assumersi la responsabilità di sé e della propria vita, la negazione ad accogliere un desiderio che sia soltanto suo, libero dalle grammatiche dei legami, dai condizionamenti famigliari assunti come alibi per la proprio mancanza di coraggio. È molto significativo che sia proprio un film che segue un giovane uomo nel movimento alterno di identificazione e dis-identificazione ai sé abituali, contriti – l’uomo della madre; il sé avvitato sul lutto – a configurare la messa a fuoco di una lente d’autore, la conquista di una visione compiuta e organica di uno stile di racconto, nei suoi molteplici annodamenti tra generazionale e universale, tra esperienza comune e tormento individuale.
Louis Garrel, nel suo film, mette in pratica – riproduce e attualizza in una simmetria perfetta tra modo e contenuto della rappresentazione – ciò che prima sembrava restare astratto dalle sue opere, esterno e non interno, non impastato ad esse, e cioè che il cinema non è un mezzo per inventare ciò che non esiste, ma per realizzare ciò che, di vero, al di fuori del cinema, nella vita che comunemente definiremmo reale, non si ha il coraggio di rivelare o di fare. E, soprattutto, che ripetere è sempre, in qualche modo, anche trasformare. Anche se si torna sempre al via, ogni film è una diversa forma di appropriazione del vero, di costruzione ragionevolmente autentica della propria narrazione, e quindi del proprio reale. Una forma che Louis Garrel, come il suo ultimo Abel, ha finalmente conquistato. Per nostra delizia.