Terezin: recensione del film sulla Shoah di Gabriele Guidi
Terezin rappresenta un nuovo inno alla determinazione di creare qualcosa di sublime anche nelle situazioni mortifere, più insopportabili e impietose.
Per celebrare il Giorno della Memoria, la ricorrenza internazionale per commemorare le vittime e gli orrori dell’Olocausto, dal 26 gennaio 2023 arriva nei cinema Terezin, con una produzione internazionale (Minerva Pictures, Rai Cinema e Three Brothers Production). Il lungometraggio è tratto da una storia vera e diretto da Gabriele Guidi, figlio d’arte di Johnny Dorelli e Catherine Spaak; vede nel cast nomi noti della fiction italiana: Mauro Conte, Alessio Boni, Cesare Bocci e Antonia Liskova e porta sul grande schermo la singolare realtà di Theresienstadt (o ghetto di Terezín secondo la definizione preferita da alcuni studiosi), che è stata una struttura di internamento e deportazione utilizzata dalle forze tedesche durante la seconda guerra mondiale, tra il 24 novembre 1941 e il 9 maggio 1945.
Terezin e la musica salvifica nel campo di concentramento
Il protagonista ci racconta la sua storia ambientata durante la Seconda guerra mondiale: Antonio Salomon (Mauro Conte) è nato in un piccolo paese del Sud Italia, si diploma in clarinetto e dopo qualche anno decide di partire per la Cecoslovacchia sognando di suonare in una delle grandi orchestre sinfoniche dell’Europa centrale. A Praga, incontra la violinista Martina (Dominika Moravkova) e si innamora della donna. Nel 1942, la giovane coppia viene deportata e costretta nel ghetto di Terezin; i due arrivano ad ingrassare le file dei tantissimi artisti rinchiusi e maltrattati dalla dominazione nazista. Qui entrano in contatto con altri musicisti ebrei costretti a vivere ai limiti dell’umanità: soprattutto creativi, molti compositori, pittori, poeti, scultori e scrittori. Insomma il cuore e l’anima della cultura centro europea di quegli anni. La storia, che, come detto, si focalizza sul clarinettista Antonio e un gruppo di musicisti, descrive quindi il potere salvifico dell’arte in situazioni estreme, raccontando come l’uomo sia profondamente capace di negare se stesso e, al contempo, proprio grazie all’arte, in grado di compiere cose mirabili: infatti saranno l’amore di Antonio e Martina e la loro passione artistica a rappresentare gli unici reali appigli per i due, per aggrapparsi (in un luogo di morte, dolore e perdizione che non sembra lasciare via di scampo).
Il lungometraggio prova a ricostruire una pagina meno nota della Shoah, che celebra il potere dell’arte
Gabriele Guidi prova a ricostruire una pagina poco nota della Shoah, che celebra il potere salvifico dell’arte: una bellezza che riesce a sbocciare nonostante tutto, anche nelle situazioni più avverse e disperate. Ma che avrebbe richiesto probabilmente parti dialogate meno enfatiche ed esplicative, un maggiore approfondimento e uno stile più netto incisivo penetrante. Prevale uno stile narrativo vicino al mondo delle fiction all’italiana, e molto lontano dallo spessore e le intensità degli insuperabili Schindler’s List, Il diario di Anna Frank, La vita è bella e Il pianista (che vi consigliamo di vedere se ancora non lo avete fatto o di rivedere per apprezzarne ancora una volta le indimenticabili scene, le battute, le musiche, per tornare ad essere catapultati in un’infinità di emozioni). Ad ogni modo, non possiamo che apprezzare ogni mezzo o forma d’arte, ogni produzione e opera d’ingegno indirizzata a un così nobile scopo qual è quello di alimentare la memoria, di mantenere vivo il ricordo (per non dimenticare la Shoah). E Terezin, in questo contesto, rappresenta un nuovo inno alla determinazione di creare qualcosa di sublime anche nelle situazioni mortifere, più insopportabili e impietose.