Intervista a Maria Roveran: “recitare per me significa indagare, approfondire e scoprire mondi diversi”
La nostra intervista all’attrice veneta Maria Roveran, protagonista del film I nostri ieri e della serie Blackout - Vite sospese.
L’uscita nelle sale de I nostri ieri di Andrea Papini, che la vede protagonista al fianco di colleghi come Peppino Mazzotta, Francesco Di Leva e Daphne Scoccia, alla quale si va ad aggiungere la recente partecipazione alla serie thriller targata RAI dal titolo Blackout – Vite sospese, sono diventate per noi l’occasione perfetta per una one-to-one con Maria Roveran, talentuosa, intensa e camaleontica attrice veneta classe 1988. Dal folgorante esordio con Piccola Patria di Alessandro Rossetto non si è più fermata, inanellando una dopo l’altra performance tra cinema, tv e teatro, che ne hanno messo in risalto le indubbie capacità recitative e la straordinaria versatilità. Abbiamo approfittato di questa intervista per ripercorrere insieme le tappe principali del suo percorso, per conoscere meglio il suo pensiero e approfondire il suo approccio all’arte della recitazione.
Intervista a Maria Roveran, protagonista del film I nostri ieri e della serie Black Out – Vite sospese
Per molti attori la recitazione ha un potere taumaturgico, per te ha lo stesso valore?
“Per me entrare nei panni di qualcuno, spostarmi dalla mia comfort zone e provare ad avvicinarmi empaticamente a un altro da me, quindi a un personaggio, è sicuramente un atto prima che taumaturgico di scoperta. Ovviamente io non faccio l’attrice con lo scopo di curarmi attraverso l’arte della recitazione e di rivolvere i miei problemi esistenziali. Quelli me li porto sempre dietro, un po’ come tutti, aspettando il momento giusto per lavorarci sopra a fasi alterne. Ma sicuramente questa è una professione che ti porta ad avere a che fare con molta umanità e tanti cambi di posizione nel momento in cui passi senza soluzione di continuità da un personaggio a un altro, ciascuno con il proprio carattere. Il ché mi porta a indagare, approfondire e scoprire mondi diversi, di conseguenza a conoscere meglio me stessa e a trovare degli equilibri. Alla fine però cerco sempre di tornare a una posizione di ascolto mia personale, che mi permetta di fare decantare quello che prendo e che credo sia buono per me”.
Nel momento in cui ti arriva una sceneggiatura o ti viene proposto un ruolo c’è qualcosa che ti aspetti o ti auguri di trovare? Cosa guida le tue scelte e ti spinge ad accettare un progetto?
“Innanzitutto per quello che posso cerco di valutare il progetto a 360°. Nel senso che non guardo solo al mio personaggio, ma a tutte le relazioni che intercorrono tra le figure che animano il film o l’opera teatrale, oltre al messaggio che intende veicolare. In tal senso cerco di capire se quello che è il tema al centro del film può avere un interesse di qualche tipo per il pubblico e anche per me stessa. In generale non pongo mai un veto che mi porta ad accettare oppure no, ma dipende dal qui ed ora, dal peso che per me hanno le tematiche trattate e anche dal tipo di sfida che è sottesa al progetto che mi viene proposto. La dimostrazione sta nel fatto che passo spesso dal cinema al piccolo schermo, da film indipendenti ad altri economicamente più strutturati. Basta vedere i lavori ai quali ho partecipato più di recente che sono agli antipodi, ossia la serie Black Out e la pellicola di Andrea Papini dal titolo I nostri ieri, che è una produzione che parte volutamente dal basso e alla quale ho collaborato non solo nelle vesti di attrice”.
Maria Roveran e il suo contributo alla sceneggiatura de I nostri ieri
A proposito de I nostri ieri di Andrea Papini, oltre a interpretare uno dei ruoli principali, ti sei occupata anche della sceneggiatura. Come sei stata coinvolta nella fase di scrittura e qual è stato il tuo contributo in tal senso?
“In generale sono entrata per la prima volta in contatto con questo progetto circa quatto anni fa, quando attraverso la casting director Marita D’Elia ho conosciuto il regista Andrea Papini. Entrambi all’epoca avevano mostrato un grande interesse nel volermi nel cast di questo film, poiché avevano già avuto modo di esaminare il materiale che gli era stato inviato e visto alcune delle pellicole da me interpretate. Trascorso un po’ di tempo da quel primo incontro sono stata convocata per un provino e una lettura del copione, ma sembravano già convinti che io fossi perfetta per il ruolo che poi hanno deciso di affidarmi. Successivamente leggendo la sceneggiatura ho posto delle domande a Papini per avere da lui delle precisazioni. A sua volta ha ritenuto che le domande e le riflessioni che gli avevo rivolto in merito al mio personaggio e non solo potevano risultare utili a mettere a fuoco certe situazioni e portare delle migliorie allo script. Poi è scoppiata la pandemia e abbiamo iniziato a lavorare a distanza, confrontandoci attraverso delle call online sulle dinamiche che sarebbero potute intercorrere tra i vari personaggi del film. Nello specifico con lui ci siamo focalizzati molto sui dialoghi e sulle sfumature di alcune scene, modificandole, in modo da andare sempre di più nel dettaglio delle relazioni tra i diversi personaggi coinvolti, essendo un’opera corale a assai stratificata.
Con il mio contributo ho cercato di fare ben coesistere la vicenda personale del protagonista Luca, un documentarista prestato temporaneamente all’insegnamento in una struttura carceraria interpretato da Peppino Mazzotta, con tutto il resto delle dinamiche che lo vedono interagire con i detenuti all’interno del film. In definitiva con Papini abbiamo cercato di trovare una giusta temperatura e un equilibrio tra le suddette linee narrative, ma anche una certa dose di realismo che potesse rendere il mio e gli altri personaggi veri, vivi e attivi. Questa è una cosa della quale mi occupo spesso quando mi trovo a lavorare sui copioni come attrice, così da andare oltre la scrittura e far sì che essa possa trasformarsi in qualcosa di vero e concreto, tanto da rendere anche le azioni e le battute pronunciate dal mio personaggio le più realistiche possibili”.
Ne I nostri ieri la violenza è lasciata fuori campo
Tra i temi al centro de I nostri ieri c’è anche la violenza di genere. Perché si è deciso di lasciarla fuoricampo e di non mostrala in maniera esplicita così da colpire ancora di più lo spettatore? Secondo te è giusto mostrarla oppure optare per la linea voluta dal regista?
“Dipende da tanti fattori, da cosa si vuole dire e come lo si vuole dire, ma anche da chi porta avanti il progetto. Andrea Papini ad esempio è un regista che rifiuta le modalità aggressive ed esplicite per dichiarare e mostrare la violenza. Il suo intento, sul quale abbiamo discusso tanto, era quello di asciugare il più possibile la presenza di atti aggressivi e violenti sia fisici che verbali. Questo perché il suo scopo era quello di fare riflettere sull’umano e sulle dinamiche, facendo un’operazione inversamente proporzionale. Il ché lo ha portato a sintetizzare il più possibile la presenza di immagini violente per fare scaturire una riflessione attraverso una sorta di estraniamento, quasi brechtiano, per potere giudicare i fatti senza necessariamente trovarsi al cospetto di azioni scioccanti di violenza fisica o psicologica, ma lasciando spazio all’immaginazione dello spettatore. Tale approccio spinge il fruitore di turno a compiere il passaggio del in più dentro di sé, in completa autonomia. Questa era una delle intenzioni iniziali di Andrea e degli altri sceneggiatori, che tra l’altro va in netto contrasto con un periodo storico in cui la stragrande maggioranza dei film che ci vengono proposti tendono a vomitare tutte le emozioni sullo spettatore. Si tratta di una scelta, quella di non mostrare in maniera esplicita la violenza, chiara e decisa. Sono cosciente, così come lo era Andrea, che può andare incontro a qualche critica da parte di quegli spettatori che ci vogliono vedere dietro una mancanza di coraggio, ma fa parte del gioco e dei rischi di chi fa il nostro mestiere. Andrea con I nostri ieri ha deciso di percorrere una strada e lo ha fatto senza dubbi o ripensamenti”.
Maria Roveran e la sua preparazione fisica per le riprese di Black Out – Vite sospese
La serie Black Out, dove interpreti il personaggio di Petra, ha richiesto una preparazione fisica importante per affrontare delle scene all’interno di un contesto estremo. Come ti sei preparata e quali sono state le principali difficoltà che hai dovuto affrontare nel corso della lavorazione?
“Innanzitutto cerco di lavorare moltissimo con il corpo, che poi rappresenta lo strumento principale per chi fa il mio mestiere. Non è tanto imparare e ripetere a memoria le battute, quanto mettermi e metterci nella condizione fisica in cui si trova il personaggio che si è chiamati a interpretare. Io sono cosciente del fatto che è impegnativo fare questa professione, che ti porta anche a dovere stare in contesti scomodi, in condizioni climatiche difficili, nello specifico a basse temperature come avvenuto in diverse scene di Black Out. In quella serie ho fatto cose che normalmente non solo solita fare o che non avrei mai immaginato di dovere fare, come ad esempio guidare motoslitte su percorsi accidentati o eseguire salti da grandi altezze. Ma l’eseguire in prima persona azioni di questo tipo, calarmi in situazioni estreme come quelle che fanno da cornice alla vicenda narrata nella serie, mi consentono di dare corpo, senso e credibilità al personaggio che sono stata chiamata a interpretare. Solitamente mi predispongo fisicamente facendo allenamenti, ripetendo azioni propedeutiche a quello che poi farò sul set. In Black Out ho abituato il mio corpo a stare al freddo e ho imparato a guidare le motoslitte al meglio possibile. Il tutto in funzione del personaggio”.
Maria Roveran e le colonne sonore di Piccola Patria ed Effetto Domino
Ci sono stati film come Piccola Patria o Effetto Domino nei quali oltre a recitare hai anche firmato la colonna sonora o parti di essa. Come sei riuscita a fare coesistere queste due fasi così distinte?
“In realtà tutte le mie collaborazioni musicali sono nate dal fatto che il regista fosse a conoscenza di questa mia altra attività artistica oltre alla recitazione. Il regista in questione è Alessandro Rossetto, con il quale ho girato i due film che hai citato. Sia in Piccola Patria che in Effetto Domino, infatti, ho collaborato anche alla realizzazione della colonna sonora. Questa cosa è nata in maniera assolutamente spontanea e magica, perché io ho iniziato a cantare ufficialmente proprio con Piccola Patria. Se non fosse stato per quel film e l’approccio lavorativo di Alessandro, che prevede una grande partecipazione degli attori nella fase di preparazione, probabilmente avrei iniziato a cantare ma non all’interno di un progetto cinematografico. In generale però un mio modo di lavorare sui personaggi è quello di scrivere come se fossero in prima persona e spesso scrivo poesie o canzoni, che poi possono diventare anche dei brani dell’opera stessa. Ciò mi permette di indagare e approfondire il lavoro sul personaggio. Difficilmente, o almeno non mi è mai accaduto sino ad oggi, che iniziassi un progetto con lo scopo sia di recitare che di firmare la colonna sonora. Più che al cinema mi è successo più frequentemente in teatro, perché lì ci sono dinamiche produttive meno complesse e capita di prendere parte a una lavorazione collettiva di scrittura di gruppo che rende più facile questo tipo di operazione. Quindi sta al regista, come nel caso di Alessandro, prendere l’iniziativa ed estendere il mio contributo al film e alla sua componente musicale. Oppure alla sceneggiatura come accaduto con Andrea Papini e I nostri ieri”.
Ci sono a tuo avviso uno o più fili rossi che consciamente o inconsciamente collegano i personaggi che hai avuto modo di interpretare sino ad oggi? Se si, quale o quali?
“Nella vita così come nel mio lavoro credo che non ci sia nulla di casuale. Il filo rosso potrei essere io stessa e la mia esistenza, il fatto che sia stata Maria a vestirne i panni. Un altro potrebbe essere legato alle tematiche che i personaggi che ho interpretato in questi anni mi hanno portata ad affrontare, che in qualche modo possono essere stati chiamati da me, senza però apparire naïf. Chiaramente poi in qualche modo o forma tali input devono trovare in me delle corrispondenze”.
I film con produzioni dal basso sono quelli che mi hanno dato mi soddisfazioni
Quale progetto tra quelli ai quali hai preso parte ti ha dato più soddisfazioni e quale, invece, non è stato capito e recepito quanto avrebbe meritato? “Quello non sufficientemente compreso è La terra dei figli di Claudio Cupellini. È un progetto a cui tengo moltissimo, al quale ho dato anima e corpo, come tutti del resto. Lo ritengo un film dalla confezione pazzesca, impreziositi da una fotografia e da una regia di altissimo livello. Purtroppo però non ha raccolto ciò che avrebbe meritato, complice probabilmente il periodo storico, quello pandemico, nel quale è uscito. Un film come quello, un post-apocalittico, distribuito in epoca Covid ha in qualche modo intimorito gli spettatori, psicologicamente provati da ciò che stava accadendo nella vita reale. Questo lo ha pesantemente penalizzato, così come il pregiudizio nei confronti di pellicole battenti bandiera tricolore che affrontano il suddetto genere. Penso che nel caso del film di Claudio sia stata la combinazione di questi due fattori a influire negativamente sul suo percorso distributivo. Per quanto concerne invece quelli che mi hanno dato più soddisfazioni, tenendo presente che auguro sempre alle opere alle quali prendo parte un grande successo, sono quelli partiti dal basso come ad esempio I nostri ieri o Beate di Samad Zarmandili. Si tratta di progetti con poche risorse, nati da un processo artigianale, nell’accezione più nobile del termine, non mainstream, ma che riescono comunque a lasciare un segno e ad emozionare tantissimo il pubblico”.