Pantafa – recensione film di Emanuele Scaringi
La recensione dell'horror Pantafa, scritto e diretto da Emanuele Scaringi, folk horror a metà strada tra Babadook e il cinema di montagna.
Pantafa è cinema horror? La risposta immediata, quella più semplice e riduttiva è sì, ma è bene aggiungere che il secondo film di Emanuele Scaringi è anche molto altro, un po’ per questioni di apparente pudore e un po’ per contaminazione di genere. Lo sappiamo bene, che si tratti di un prodotto cinematografico, oppure di uno seriale, l’annuncio di un nuovissimo tentativo horror da parte di una voce italiana scatena sempre qualche perplessità e pregiudizio.
Vuoi per una credibilità parziale rispetto al genere, venuta a mancare nei primi anni del duemila e tutt’ora esistente – e persistente -, vuoi per una pigrizia autoriale sempre più ripiegata sull’adesione totale e la replica produttivamente scarsa di un modello americano decisamente più ispirato, funzionale e consapevole dei propri strumenti e meccanismi narrativi. Eppure, guardando agli ultimi dieci anni di cinema italiano, si ha l’evidenza di una spaccatura, meglio, di una divisione in due fazioni: chi cerca di dar vita ad un nuovo cinema di genere fieramente nostrano, e chi invece persegue l’imitazione più diretta e nient’affatto naturale di un modello a noi distantissimo. A quale delle due fazioni appartiene Pantafa? Non resta che proseguire nella lettura.
Sul rapporto genitori-figli – Là, dove il cinema horror nasce
“Voglio dire, malata di nervi. Ha dovuto allevarmi da sola dopo la morte di mio padre. Io avevo soltanto cinque anni e questo l’ha logorata molto. Non che sia stata costretta a cercarsi un lavoro perché mio padre ci aveva lasciato un po’ di soldi… comunque, qualche anno fa, mia madre incontrò un uomo e lui la convinse a costruire questo motel. Lei non viveva che per quell’uomo e.… quando lui morì, fu un colpo troppo forte… anche… anche per il modo in cui morì. (Ride) Non credo che sia la cosa migliore di cui parlare mentre uno mangia. Comunque fu una perdita irreparabile per lei. Non le restava più niente…”
Riflettendo sul cinema horror e ancor più specificatamente sul rapporto tra genitori e figli all’interno di questa cinematografia appare come inevitabile tornare alla linea di dialogo che meglio – e prima – di qualsiasi altra ha saputo guidare lo spettatore attraverso una delle moltissime tracce narrative destinate a dettare legge nel cinema horror, quella del rapporto tra genitori e figli, ossia la nascita del male nella famiglia, e il passaggio generazionale, inarrestabile e perfido della crudeltà, così come dei turbamenti e delle ossessioni.
È il 1960 e nelle sale cinematografiche statunitensi – poco più tardi anche in quelle italiane ed europee – approda Psycho, il film maledetto, bistrattato e accolto come volgare, violento, eccessivo e spudoratamente spietato di Alfred Hitchcock, quello stesso film di lì a poco, destinato a segnare definitivamente la storia del cinema.
Psycho dunque elabora la riflessione sul male interno alla famiglia, servendosi del rapporto ferocemente sadico e disturbato tra una madre e un figlio, filtrando il complesso di Edipo attraverso le lenti, i topos e gli stilemi dell’horror in quel momento ancora particolarmente pudico, seppur alla ricerca di nuove frontiere sceniche e narrative, tanto in termini di visuale, quanto di metafora e suggerimento psicologico.
Una ricerca destinata a tornare via via nel corso degli anni e della mutazione profonda del cinema horror americano – e non – passando per titoli quali Venerdì 13, Rosemary’s Baby, My son, my son, what have ye done?, Shining, …e ora parliamo di Kevin, Babadook e così via, giungendo fino al cinema nostrano e all’oggi, poiché Emanuele Scaringi guardando apparentemente all’analisi drammatico/horror della Jennifer Kent del precedentemente citato Babadook, questo tenta di fare, ossia riflettere sul legame tra una madre e una figlia raccontando il male che talvolta la famiglia è capace di generare, o in casi differenti alimentare o celare.
Pantafa però non si ferma qui e compiendo un’ulteriore ricerca narrativa e stilistica guarda al folk horror o comunque agli stilemi della fiaba folkloristica e della leggenda di paese, mettendo in qualche modo il piede in due scarpe e rischiando perciò con grande coraggio – forse troppo – di perdersi tra l’una e l’altra realtà cinematografico-narrativa, restando in costante equilibrio tra approfondimento e sacrificio.
Il folklore e la condizione del forestiero – Pantafa tra Stephen King e il dramma di montagna
Emanuele Scaringi ce la mette davvero tutta in termini registici, lavorando anche e soprattutto su questioni d’atmosfera e di definizione di uno specifico e particolare modello costruttivo d’individuo e collocazione spaziale, poggiandosi inevitabilmente sulla cupissima e fortemente evocativa fotografia di Simone D’Onofrio, è però nella sceneggiatura che gran parte della curiosità relativa alla paura del mito della Pantafa viene a mancare, lasciando presto spazio al già sentito, al già visto, perciò al convenzionale.
Eppure Pantafa aveva tutta le carte in regola per risultare un più che interessante tentativo di cinema horror nostrano, con uno sguardo visibilissimo al cinema americano, ancorato tuttavia a strutture ed elementi tipici di un tradizionalismo italiano che grandi autori precedenti a Scaringi hanno saputo sfruttare appieno, proprio in virtù e in nome di quella ricerca d’inquietudine e paura che qui risulta sfortunatamente mancante, come ad esempio il modello Avatiano, o ancora, quello di Deodato, Argento, Bava e Bianchini.
Se infatti la leggenda paesana di montagna della Pantafa, dalla mitologia tipicamente abruzzese, avrebbe potuto tranquillamente guardare e rifarsi al modello Avatiano della Casa dalle finestre che ridono, perciò a tutto quell’insieme di elementi e atmosfere rurali capaci di veicolare e generare quella paura così sottile, feroce e tipicamente italiana, poiché legata specificatamente a quei luoghi e a quel tradizionalismo popolare, Scaringi conduce la leggenda, perciò il suo film decisamente altrove, in nome di un convenzionalismo narrativo horror ormai abusatissimo e rintracciabile nella stragrande maggioranza dei titoli in uscita nel panorama cinematografico horror statunitense, quello cioè della possessione e dell’elaborazione di quest’ultima nella famiglia, chiaramente disfunzionale e dalle moltissime ombre, mai totalmente approfondite.
Il coraggio di Scaringi inevitabilmente resta poiché il suo secondo lungometraggio, Pantafa – dopo il precedente La profezia dell’armadillo, adattamento dell’omonima opera fumettistica di Zerocalcare – se non altro dimostra che in Italia esiste tutt’oggi ed è vivissima una volontà autoriale ferrea e ispiratissima rispetto alla nascita e alla produzione di una nuova cinematografia horror, capace di guardare a modelli Kinghiani, restando allo stesso tempo legata ai tipici stilemi della collocazione spazio-temporale italiana, in questo caso di montagna e provincia, perciò immersa tra nebbie, silenzi, freddo, timore e discriminazione del forestiero, vecchie abitazioni, legno e buio.
L’elemento folkloristico però, seppur presente, cede presto il passo alla dimensione narrativa ben più convenzionale e meno appassionante della possessione demoniaca, senza sfruttare appieno – come avrebbe potuto fare – miti e leggende di quelle montagne abruzzesi che Marta (una durissima, enigmatica e complessa Katia Smutniak) e la figlioletta Nina (Greta Santi) scoprono man mano, facendosi del male vicendevolmente e perdendosi tra un passato mai realmente messo in luce, ma dal quale nascondersi, ed un presente altrettanto buio, disperato e privo di sonno e speranza, che difficilmente lascerà scampo alle due forestiere.
La potenza folkloristica horror di A Classic Horror Story, sorprendente e discusso film Netflix di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, che meglio di qualsiasi altra voce nostrana, hanno dimostrato a tutti noi il significato del pregiudizio ingenuo, banale e immotivato nei confronti del cinema horror italiano, riflettendo su di esso in chiave metalinguistica e cinematografica con risultati incredibilmente interessanti e convincenti è lontana da quella di Pantafa, che se indaga inizialmente il contenuto vastissimo di credenze popolari e leggende nostrane, se ne allontana ben presto, spostandosi sui linguaggi probabilmente più universali, accessibili e semplificati della possessione demoniaca, perciò dell’esorcismo.
Pantafa – Conclusione e valutazione
Pantafa, il secondo lungometraggio di Emanuele Scaringi seppur diretto con mano sapiente e grande conoscenza di tutti quelli che sono gli strumenti registici e narrativi del cinema horror dell’oggi, perde parte del suo potenziale nel tentativo di riflettere parallelamente su più temi e tracce narrative assai distanti tra loro, confondendo gli uni con gli altri e mancando di approfondire gli elementi d’inquietudine, perciò d’interesse tipici del folklore e della leggenda di paese, nella costante analisi molto spesso drammatica e in qualche modo anomala di un rapporto madre-figlia tormentato, atipico, disfunzionale e ormai abusatissimo, tanto dal cinema nostrano, quanto da quello americano e asiatico, senza trovare mai realmente un punto di vista nuovo sulla questione.
Fin troppi gli elementi, fin troppa l’adesione alla dinamica della possessione, così come eccessiva la messa in luce immediata di quella paura precedentemente suggerita silenziosamente e lontanamente evocata. Ottime interpretazioni quelle di Smutniak e Santi, a servizio di una sceneggiatura tutto sommato fiacca e in più di un momento estranea alla natura italiana del prodotto, rischiando stonature e allontanamenti d’atmosfera piuttosto radicali e fatali nella creazione di quella sensazione così difficilmente raggiungibile quale è la paura.
Un obiettivo raggiunto solo a metà, al quale però è bene guardare, considerando che in Italia è possibile tornare all’horror senza più temere il confronto con il cinema americano e non, poiché mezzi, limiti e strumenti non sembrano più frenarci e questo, più di ogni altro, è il momento di rinascere.
Pantafa è stato presentato in anteprima nel corso della 40° edizione del Torino Film Festival ed è in uscita nelle sale a partire dal 30 marzo 2023, distribuzione a cura di Fandango.