La Casa – Il Risveglio del Male: recensione dell’horror di Lee Cronin
La Casa - Il Risveglio del Male, il quinto capitolo del popolarissimo franchise horror, arriva nelle sale italiane il 20 aprile 2023 per la regia di Lee Cronin.
Si può parlare di un film come La Casa – Il Risveglio del Male, regia di Lee Cronin e nelle sale italiane dal 20 aprile 2023 per Warner Bros Italia, senza ricorrere alle solite scorciatoie dialettiche? Perché è vero, è il quinto capitolo (secondo stand-alone) di una popolarissima saga horror cominciata nel 1981 con il super classico La Casa (Evil Dead), il film responsabile di aver lanciato nella stratosfera, anche se non immediatamente, la carriera del suo autore, Sam Raimi. E del suo protagonista, Bruce Campbell. La pigrizia critica riduce il cinema e chi lo fa alla bidimensionalità delle etichette e quindi senza neanche faticare troppo la saga è sempre iconica (scorciatoia #1) e l’horror un bagno di sangue (scorciatoia #2), ma il punto è proprio questo. La Casa – Il Risveglio del Male è l’indiavolato (!) proseguimento di una saga iconica e, fidatevi, un bagno di sangue, affermazione da prendere alla lettera, come ne avete visti raramente al cinema, non solo di questi tempi. Ci sono momenti in cui sembra che lo schermo fatichi a trattenerlo, tutto quel sangue.
Bisogna fare meglio di così, perché è il film stesso a chiedercelo, lavorando sull’atmosfera e le convenzioni della saga e nel frattempo cercando di spostarne il baricentro, implorando un’analisi più profonda e puntuale. Ci sono degli elementi di novità in La Casa – Il Risveglio del Male, su tutti il trasferimento dell’azione in una grande città, Los Angeles, immaginando un tipo diverso di claustrofobia. Il racconto poi è decisamente al femminile. Mette in scena un interessante dialogo tra horror fisico e horror psicologico che ne illumina il fondo tematico. Nel cast Lily Sullivan, Alyssa Sutherland, Gabriel Echols, Morgan Davies e la piccola Nell Fisher.
La Casa – Il Risveglio del Male: una famiglia assediata, un libro maledetto, la grande città
Ogni horror, indipendentemente da epoca/paese/ regista/ contesto di riferimento, risponde alla medesima, universale convenzione narrativa. Che per lo spettatore è un bel regalo, ma è complicata da razionalizzare. In estrema sintesi, i personaggi di un film horror si comportano come se non avessero mai visto un horror in vita loro, commettendo sempre lo stesso, stupido, maledettissimo errore, uno sbaglio che non si spiega neanche ricordando come uno dei tratti più comuni della psicologia umana sia l’irrazionalità e la tendenza a contraddirsi. I personaggi, loro, guardano sempre nei posti in cui non bisogna ficcare il naso, restano quando dovrebbero scappare (e viceversa), nutrono una sconsiderata fiducia nelle possibilità del lieto fine. Se vi capitasse di trovare un libro antichissimo con delle zanne per antifurto e zeppo di immagini spaventose non lo aprireste, lo lascereste dove sta e scappereste mille miglia lontano, non è così? Ecco, perché i personaggi di La Casa – Il Risveglio del Male fanno l’esatto contrario. Fortunatamente.
Beth (Lily Sullivan) è un tecnico del suono (anche se tutti pensano sia una groupie) per una band non meglio specificata che, dopo l’ennesimo tour e una sorpresina in cottura dentro di lei, torna a Los Angeles a trovare la sorella Ellie (Alyssa Sutherland). Beth sta per diventare madre, non ha la più pallida idea di cosa fare di sé e del probabile figlio in arrivo e, forse inconsciamente o forse no, va a cercare aiuto dalla sorella, che di bocche da sfamare ne ha tre, Danny (Morgan Davies), Bridget (Gabrielle Echols) e Kassie (Nell Fisher). Le cose, a Ellie, non vanno per il verso giusto. Il padre è sparito, la casa, un appartamento in un gotico incubo architettonico nella periferia di LA, sta per essere demolito. E in seguito a uno strano terremoto, Danny, con la pigra complicità delle sorelle, porta a casa il dannato Libro dei Morti insieme a una collezioni di vinili sui cui è registrata la voce di un sacerdote (in originale lo doppia Bruce Campbell) intento a commettere il più grosso errore della sua vita, oltretutto lasciandone traccia per i posteri: evocare una spaventosa presenza demoniaca che sarebbe meglio lasciare addormentata.
Ma non lo fa nessuno. Non lo fa il prete, non lo fa Danny, che non fiuta il pericolo fino a quando non è troppo tardi. Lo spettatore sta un passo avanti ma non si comporta tanto diversamente dai personaggi, perché resta a guardare quello che succede, nonostante tutto. Quello che succede, nel momento in cui Danny consegna involontariamente al mostro le chiavi della vita della sua famiglia, è La Casa – Il Risveglio del Male al culmine del suo orrore sanguinolento: corpi straziati, urla, anime lacerate, torrenti di sangue. Il nemico prende Ellie per prima e minaccia di fare lo stesso con il resto della famiglia: straziare i corpi per rodere l’anima, eliminare dal quadro ogni residuo di speranza e gettare una fosca luce di tenebra e morte tutt’intorno. Per tirarsi fuori dai guai serve creatività, un lampo di follia e la capacità di guardare in faccia la realtà. La realtà è la cosa più spaventosa in La Casa – Il Risveglio del Male, non il sangue. Il sangue e l’orrore fisico sono la cortina truculenta dietro la quale Lee Cronin nasconde un malessere psicologico più sottile e molto, molto più spaventoso.
L’orrore esteriore e l’orrore nascosto, è il secondo quello che fa veramente paura
Gentilezza e delicatezza non sono parole che viene istintivo associare ad un film come La Casa – Il Risveglio del Male. Non c’è niente di gentile nella superficie del film, né nel suo bagaglio tematico. Nulla di delicato nella poesia infernale di un corpo squartato e di una pioggia di sangue, niente di tranquillizzante nell’aggressione sonora (molto efficace) di cui l’incalzante regia di Lee Cronin si serve per chiarire allo spettatore i controni, nonché il perverso fascino claustrofobico, di un’aggressione mortale. No, il film non è gentile, non è delicato. Eppure.
C’è qualcosa di compassionevole nella cura con cui Cronin, che è autore in tutti i sensi, scrive e dirige, “nasconde” e addomestica il principale incubo tematico di La Casa – Il Risveglio del Male. Ogni horror si basa sulla dialettica tra due diversi tipi di paura. Un’atmosfera di tensione, malessere e disagio psicologico, l’orrore astratto, impalpabile, che per essere portato alla luce ha bisogno di un riferimento visibile, concreto: di qui i corpi spappolati, i volti sfigurati, l’orrore esplicito. Ci illudiamo di rabbrividire per ciò che il film porta in superficie, ma non è così. L’esteriorità del film è una paura tranquillizzante (!) perché assurda, irrealistica, un diabolico divertimento. Il vero orrore è nascosto dietro le quinte e può essere riassunto così: tutti i diavoli dell’inferno non valgono una madre che si rivolge contro i suoi figli.
I riferimenti a Shining, sparsi qua e là, vanno presi sul serio. Anche in quel caso si celebrava il tracollo della famiglia tradizionale ma dal punto di vista del padre, del maschio tossico infestato dai fantasmi della propria inadeguatezza (la crisi creativa) che non regge alla pressione e cerca di risolvere le cose, come? uccidendo tutti. La Casa – Il Risveglio del Male è il racconto dell’altra metà del cielo. Alyssa Sutherland e Lily Sullivan non danno voce e corpo a due madri, ma a due donne. La maternità come riflesso della crisi e delle difficoltà incontrate dalla donna che cerca di essere semplicemente se stessa, di realizzarsi, in un mondo ostile che non offre aiuto (dove sono gli uomini?), ma solo interferenze (la possessione). Le due sorelle rappresentano due diverse possibilità di affrontare la crisi, soccombendo al male assoluto o cercando di tirar fuori il meglio da una situazione disgustosa. Il sangue è solo la forma tranquillizzante con cui Lee Cronin gestisce i fantasmi e i traumi inconsci. Loro sì che fanno paura sul serio.
La Casa – Il Risveglio del Male: conclusione e valutazione
La Casa – Il Risveglio del Male trasferisce l’incubo claustrofobico del franchise dalla campagna alla grande città, lavorando sulla forza plastica dell’immagine e l’angoscia opprimente di un sonoro che non concede un attimo di tregua, per offrire allo spettatore il senso fisico di un’aggressione alla vità, alla bontà, alla speranza. L’orrore esteriore rende sopportabile la tensione sotterranea, oltretutto evitando di appesantire l’architettura tematica di un film che è anche, soprattutto, un perverso e rumorosissimo gioco con le nostre paure più profonde. Prenderlo sul serio va bene, ma senza esagerare. L’obiettivo è uno spavento divertente.