Le otto montagne vincerà il David di Donatello, ma il New Yorker ha fatto bene a stroncarlo
Candidato a miglior film ai David di Donatello – la cerimonia, mercoledì 10 maggio 2023 –, Le otto montagne, adattamento di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch dell'omonimo romanzo di Cognetti, vincerà. E ora spopola pure negli USA. Ma la stroncatura del New Yorker non è solo bastiancontrarismo.
Le otto montagne, film della coppia di cineasti belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch che adatta l’omonimo romanzo di Paolo Cognetti, ha incassato 6 milioni in Italia, a circa 4 mesi dal debutto, e sta andando bene anche ai botteghini statunitensi. È uno dei film italiani recenti che più sembrerebbe aver convinto anche il pubblico internazionale: il successo raccolto da noi ha trovato altrove estensione e conferma. L’autorevole critico Richard Brody l’ha tuttavia stroncato nella sua colonna sul New Yorker. Ecco perché ha fatto bene.
Le otto montagne: la povertà dei dialoghi tradisce un equivoco sull’individuo, ritagliato nel vuoto e non in una rete relazionale
Scrive Richard Brody che la sua definizione di “film lento” – definizione che applica, senza esitazione, a Le otto montagne – non riguarda l’azione, ma il pensiero: “alcuni film con una drammaturgia sobria e riprese lunghe, statiche, offrono un profluvio sferzante di idee, mentre ‘Le otto montagne’ non è solo un film lento nell’azione, nella successione delle immagini, ma anche quasi privo di idee e, se non di idee, della capacità di esprimerle“. Il critico, in forza al New Yorker del 1999, nella sua esegesi del film, si concentra in particolar modo sui dialoghi e la loro funzione. Osserva che le parole che si scambiano i personaggi – i due protagonisti, Pietro (Luca Marinelli) e Bruno (Alessandro Borghi), prima bambini e poi adulti – servono unicamente l’avanzamento del plot: non rivelano nulla né della dimensione emotiva o intellettiva dei personaggi né, soprattutto, delle relazioni con l’ambiente sociale di cui le loro soggettività dovrebbero essere espressione.
Del resto, per dirla con Rimbaud, l‘io è un altro: non solo siamo abitati da uno straniero, ma siamo nati all’interno della relazione con l’altro, fatti dall’altro e rispetto ad esso, per similitudine o opposizione, somiglianza o difformità. Senza un tu non c’è un io e, oltre al tu delle prime figure di riferimento significative, c’è anche il tu sociale, l’alterità rappresentata dai pari, dalla comunità allargata, dagli archetipi collettivi e dagli immaginari sincroni. Bruno e Pietro sembrano, invece, delle monadi, estranee a qualsiasi influenza altra. Gioca un ruolo, rispetto a ciò, anche il narratore opprimente – la focalizzazione coincide perlopiù con il personaggio-narratore interno –: in quanto ricavato da un romanzo, il film residua di elementi narrativi, non riesce fino in fondo a convertirli in dispositivi rappresentativi e, pertanto, a mobilizzarsi, a passare agilmente, ‘saltellando’, dall’io al tu, in una dialogicità e plurifocalizzazione più propria – anche se non per forza – del medium cinematografico.
Anche il paesaggio, secondo il giornalista, pecca di inespressività: la resa fotografica non dischiude ad alcuna autenticità. Insomma, sia il linguaggio verbale sia il linguaggio extra verbale non riescono a dire veramente o a rivelare qualcosa dei personaggi, ma anche il linguaggio estetico, l’espressione affidata all’immagine, non sembra sollevarsi al di sopra della sua plastica, serica staticità. Il manto di neve ha una sua dimensionalità percepibile, morbida, la luce che lo attraversa è struggente, ma, al di là dell’estasi percettiva, che cosa di questo paesaggio sfida i protagonisti e, ancor più, stimola gli spettatori? Secondo Brody, la battuta più memorabile del film è la replica del personaggio di Borghi – il montanaro Bruno, rimasto tutta la vita tra le montagne della Valle D’Aosta – alle considerazioni di alcuni amici di Pietro in visita da Torino. Questi esaltano la vita a contatto con la natura; lui risponde che “natura” è un termine astratto che nessun montanaro userebbe mai perché la natura per chi la vive veramente è l’elemento discreto, contornabile, non una categoria priva di referenti concreti.
La stilizzazione, però, in cui indulge la fotografia del film sembrerebbe smentire quanto dice Bruno, in quanto la vita di montagna rappresentata non è mai controidillica, realistica, ma incapsulata nella cartolina, nella cornice da sogno delle nevi abbacinanti e delle sagome eleganti dei monti, di una bellezza sontuosa e addomesticata, che non incombe e non diviene mai forza incontrollabile. O meglio: non viene mai rappresentata formalmente nell’incombenza e nell’incontrollabilità, anche quando la narrazione andrebbe in quella direzione. Brody contesta al film l’evitamento del confronto con ciò che è discorde: appunto una natura non idealizzabile, che richiede all’uomo il corpo a corpo con gli elementi distinguibili e soverchianti che la compongono. Ma il discorde evitato è anche il rapporto con l’alterità, sia essa politica, sociale, relazionale.
Un film di cristallo che immobilizza il conflitto, negando la problematicità del discorde (e del suo evitamento)
Se, forse, il giudizio di Brody può risultare fin troppo impietoso, contiene alcune intuizioni condivisibili. Rispetto al testo di partenza, il romanzo di Cognetti, il film tende a non valorizzare quelli che sono i suoi nuclei tematici. Lo spettatore si trova di fronte a un film uniforme, in cui i dialoghi non ritmano l’andamento e non punteggiano, distinguendo ciò che è importante e ciò che è accessorio, dando movimento a una rappresentazione ancora intrappolata nel bozzolo narrativo primigenio ed eppure priva della forza e dell’autonomia della narratività pura, quella del romanzo.
Le otto montagne è la storia di due fratelli, anche se non di sangue: Pietro e Bruno si conoscono poco meno che adolescenti, perché il primo passa le estati in montagna mentre il secondo la montagna non la lascia mai, poi si perdono e si ritrovano da giovani adulti. Il borghese fra i due, il Pietro che, cresciuto, diviene di Marinelli, mostra una personalità inquieta e sembrerebbe faticare a trovare il proprio posto nel mondo. Il padre vorrebbe che il figlio condividesse con lui il suo amore per la montagna: l’uomo, un ingegnere, è infatti insofferente nei confronti della vita di città e vede in Bruno, l’altro figlio, quello non di sangue, per così dire elettivo, l’incarnazione del buon selvaggio, di una reattività selvatica, irriflessa, alle sfide della vita, mentre Pietro, il figlio di sangue, sembra più fragile e piagnucoloso, dotato di una sensibilità nervosa ed esitante, di un’inclinazione all’erranza e all’insoddisfazione.
Il libro ha una costruzione parabolica e si sorregge su una domanda: chi, tra i due amici-fratelli, vive di più la vita? O meglio la vive nel modo più pieno e – forse – giusto? Quello che puntualmente parte o quello che puntualmente resta? Chi fa il giro del mondo per trovare la cima su cui sedersi o colui che fin da subito raggiunge la cima più alta? La risposta rilancia all’assenza di garanzie e il finale sembrerebbe ribaltare le premesse: il forte si rivela fragile; il fragile forte.
Prendere il giro lungo – disfare il già fatto, costruire l’identità senza acquisirla mai indiscutibilmente – forse si rivela la scelta migliore, mentre rifiutarsi di abbandonare l’illusione dell’integrità condanna alla disfatta, al ripiegamento autistico e mortifero. Il testo letterario – e, quindi, quello audiovisivo – hanno a che fare con l’evitamento del discorde, ma il film, nella sua forma, non accoglie la problematicità di tale evitamento, come invece fanno, anche pagando, i personaggi. Il risultato è che il conflitto resta lettera morta, non mobilitata dalla traduzione filmica, che appunto non accoglie la problematizzazione come invece fa il soggetto del libro, ma anzi la nega.
Le otto montagne: un western montanaro sul parricidio simbolico
Il film, come il libro, sembrerebbe condurre, inoltre, una riflessione sul rapporto tra padri e figli, metaforizzabile nel rapporto tra passato e presente. Il padre, in un passaggio del libro poi reso nel film, stabilisce una similitudine tra l’acqua che scorre nel torrente e il tempo che passa. Chiede al figlio quale pensa che sia il futuro, se l’acqua che scorre avanti o quella che hanno alle spalle. Pietro risponde che il futuro è l’acqua che scivola via davanti a loro, ma il padre lo corregge: l’acqua che deve ancora arrivare, e quindi resta dietro, rappresenta il futuro. Il torrente simboleggia il rapporto tra origini e individuazione, tra ciò che siamo stati e ciò che saremo: il futuro non è diventare altro dai padri, ma diventare i propri padri.
Il rapporto difficile con il padre si risolve infatti per Pietro provando ad accorciare le distanze nei suoi confronti, comprendendo che, in fondo, parte dell’acqua che scorre proviene dal passato, dall’immagine del padre, dalla sua eredità morale. La costruzione della casa, che occupa gran parte della seconda parte del libro e del film, può intendersi secondo questa funzione di significazione simbolica: il figlio non fugge più dal desiderio del padre, trova un modo di farlo suo e di renderlo compatibile con il suo desiderio contrario, l’evasione nell’altrove del vasto mondo ignoto e percorribile, delle altre montagne possibili.
Le otto montagne è un western montanaro molto ‘maschile’ per tematiche e ruota intorno all’ossessione per il padre e per l’amico che incarna un altro sé possibile, quello che si è e si potrebbe essere. La tensione sembrerebbe, tuttavia, unilaterale, proprio perché lo sguardo resta fisso, aderente a Pietro, non si sposta mai su Bruno. La debolezza dei dialoghi che lamenta Richard Brody è, in effetti, un limite del film: l’interlocuzione dei due amici è frammentata, bucata dai silenzi, ma questi silenzi raramente sono eloquenti o accrescono una potenza emotiva perennemente in potenza, più virtuale che effettiva. E, ugualmente, le parole, faticano a evocare, a rimandare a un altro piano di significato. Sono parole senza conseguenze. Per così dire, sono un torrente in cui il passato non confluisce nel futuro (anziché, viceversa), ma ristagnano immobilizzando non solo l’azione – non è grave – ma soprattutto il pensiero.
Di Otto montagne fatichiamo a capire cosa voglia dirci. Avrebbe tanto da dire, senza dirlo didascalicamente, ma appunto evocandolo, suggerendolo in uno slancio verso il di più di un dialogare mobilitante: avrebbe da dire di come fare a capire chi siamo; di come fare a liberarci di ciò che gli altri hanno fatto di noi e di come non è possibile farlo, pur facendolo; di come trovare quello spazio, se andando di cima in cima o rifiutandoci di abbandonare ‘la’ cima; di come fare di un padre morto un padre vivo; di come l’identità, quando è troppo rigida, possa fare più male di un’identità invece troppo contraddittoria e sospesa. Tuttavia, il film questo non lo fa, obbligandoci a ricavare tutto da noi, di supplenza, attraverso le proiezioni che non ci tornano indietro, restano bloccate in una quarta parete ben spessa. È un film che usa le parole e le immagini solo in senso descrittivo: entrambe – parole e immagini – eludono il conflitto, la tensione, il rimpallo, si condannano a restare esercizio di calligrafia e, per questo, smorzano sempre troppo in una sobrietà a cui possiamo riconoscere raffinatezza estetica, ma non la puntualità del discorso, la sua capacità di svolgersi e, di conseguenza, di imprimersi emotivamente.