Prison 77: recensione del film di Alfredo Rodriguez

La recensione dell'ottavo film di Alfredo Rodriguez, che stavolta affronta le lotte carcerarie alla fine del franchismo.

Esce in sala giovedì 8 giugno 2023 l’ottavo film di Alfredo Rodriguez, Prison 77.
Rodriguez ha costruito la sua carriera sulla messa in scena, attraverso il filtro del cinema di genere, di eventi e pulsioni oscure del suo paese d’origine. Prison 77 vorrebbe essere l’ulteriore tassello in una filmografia, dunque, volta a re-inscrivere il reale all’interno di una dinamica finzionale, che contemporaneamente sia in grado di intrattenere e di far riflettere sulla storia e le contraddizioni della democrazia spagnola.

Prison 77: storia e fiction

Prison77 Cinematographe.it

Il film è ambientato fra il 1976 e il 1978, gli anni della Transiciòn dal regime fascista di Franco (il caudillo morì nel 1975) alla democrazia. Racconta la storia di Manuel (Miguel Herrán), contabile imprigionato per un crimine fiscale, nel carcere di Barcellona, La Model. Qui il giovane uomo, inizialmente mosso da una certa arroganza borghese, pensa di poter far valere i propri diritti a suon di reclami formali, ma ben presto si rende conto di trovarsi in un luogo dove non esiste altra logica se non quella del potere, brutale, arbitrario e assoluto delle guardie. Manuel si avvicina allora all’ADP, l’associazione per i diritti dei prigionieri, una sorta di collettivo autonomo che lotta per i diritti dei carcerati e lentamente inizia un percorso di politicizzazione, in cui riuscirà a coinvolgere anche Pino (Javier Gutiérrez), carcerato anziano e individualista. La storia di Pino e Manuel si conclude con un tentativo di fuga che riporta l’opera sui binari del prison movie più tradizonale, di matrice hollywoodiana.

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Prison 77 parte da una vicenda realmente accaduta, ovvero l’evasione da La Model di alcuni detenuti, intrecciata alla lotta del COPEL, collettivo formato sia da detenuti politicizzati che da prigionieri comuni e che si batteva per l’amnistia totale (nel 1977 venne varata solo quella per i detenuti politici), nonché per l’abbattimento di leggi e strutture ereditate dal franchismo. Eppure la trasfigurazione che Rodriguez decide di compiere degli eventi e il punto di vista che assume, rendono questo lavoro problematico.

Una rielaborazione hollywoodiana (borghese) delle lotte carcerarie spagnole

Solo apparentemente la vicenda di Manuel traccia una vicenda politica paradigmatica di collettivizzazione dell’identità individuale. Essa sembra, infatti, legarsi a quel pensiero foucaultiano che vedeva – riferito alla coeva situazione francese – nelle lotte carcerarie, un elemento fondamentale e distintivamente rivoluzionario, nell’incontro fra detenuti politici e comuni. Da tale incontro, come accadde effettivamente anche nell’esperienza italiana, si generò “la traduzione in parola e pratica politica delle istanze, della rabbia e dei bisogni dei detenuti” (Susca e Rotondi, L’aria brucia, 2018), dando il via a vere e proprie riforme nei vari ordinamenti giuridici, al costo delle vite di tanti prigionieri. D’altronde Rodriguez non aderisce in profondità a questa logica. La necessità di rimanere entro i canoni del genere, cercando l’immedesimazione di un pubblico borghese, fa sì che il regista inscriva la rivolta di Manuel in un democratico anelito alla libertà offerta dal consumismo. I simboli del futuro migliore, per cui sono necessarie le lotte, si configurano ben presto nella letteratura di fantascienza (con citazione del sempiterno Fahrenheit 451), nei vestiti alla moda e in una romantica storia d’amore con una giovane post-sessantottina, indipendente e aperta – al contrario della moralista sorella, fidanzata di Manuel all’inizio del film. Rodriguez è così esplicito in questa presa di posizione, che la simboleggia tramite un’insegna visibile dalla cella del protagonista – il fuori, a cui il prigioniero anela tramite lo sguardo: la libertà offerta dalla visione. L’insegna riproduce un cowboy e una scritta che recita “il futuro è a colori”, ovvero il futuro è la tv a colori, il neon della democrazia di matrice statunitense, il consumismo, che in altri paesi si era imposto nel decennio precedente. Se si legge il film in quest’ottica allora si comprende anche il tentativo di rendere meno ideologizzata possibile la rappresentazione del COPEL (l’ADP), riducendo per esempio, i comunisti e gli anarchici, presenti in La Model a macchiette di décor – i rivoluzionari sono borghesi come Manuel!

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È dunque lecito ritenere Prison 77 non un’opera in grado di destrutturare il nucleo delle narrazioni politiche autoritarie, attraverso la critica al sistema carcerario franchista. Il film, riconferma infatti i presupposti mitologici fondanti dell’ideologia oggi dominante, attraverso l’accusa a un regime mostruoso, ma ormai caduto. Cioè riconferma il valore della democrazia capitalista, nuova forma di autorità totalizzante – e fascista, se accettiamo la lettura pasoliniana del liberismo democratico. E lo fa anche attraverso l’aderenza a dei mitologemi cinematografici, tipici del cinema che più di tutti ne ha cantato le lodi, quello statunitense. Ecco che allora il film presenta il momento collettivo solo come una fase transitoria, necessaria alla crescita dell’individualismo eroico del protagonista, proprio come vuole la tradizione di tanto cinema hollywoodiano, che pone sempre e solo l’individuo al centro delle proprie narrazioni e mai un soggetto collettivo. Da qui il veloce declassamento della lotta dell’ADP/COPEL a utopia fallita e la conseguente virata del film verso il prison movie incentrato sull’evasione, in stile Fuga da Alcatraz (Siegel, 1979).

Prison 77: valutazione e conclusione

La regia è ben congegnata, ma evita di portare fino in fondo le premesse ideologiche più interessanti. Anche formalmente il film finisce allora per cercare di essere fortemente legato al linguaggio del cinema commerciale statunitense, privilegiando la figura umana e seguendo da vicino i suoi protagonisti. Il che porta a un depotenziamento delle possibilità visive offerte dalle architetture de La Model, carcere costruito sui principi del Panopticon di Bentham, ma di cui vediamo poche volte la totalità opprimente e mai ne realizziamo le peculiarità, degne di un incubo di Piranesi. Gli attori riescono a fornire una buona prova. Il risultato risulta troppo sbilanciato sul versante dell’entertainment a scapito delle ambizioni sociopolitiche dell’opera.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3

2.9